domenica 25 dicembre 2011

Palle di Natale



"untitled" di Jean Michel Basquiat


Questo fottuto albero di Natale mi guarda e lampeggiano le sue lucine su questo tetro arrivo della vigilia, nel bel mezzo del periodo delle convenzioni più marcate. Questi giorni pieni di lotterie ma senza fortuna, di centri commerciali e di gesucristi elettrici e babbi natali che si inculano, di tabacco rollato e fumato al freddo, giorni saturi di addii e di gente che ritorna. Rinchiuso in una stanza che puzza di stufa a gas, perso tra i bar in una solitudine, respirando l’aria fredda dell’inverno.

Ho un vassaio ricoperto di avanzi di cibo da asporto sul davanzale, una bottiglia di spumante mezza vuota e ammuffita, l’amplificatore attaccato a una spina bruciata e la chitarra sul letto insieme a me. Le lenzuola sono di nuovo grigie. Dovrò decidermi a lavarle un giorno. Esco di tanto in tanto per scendere al bar sotto casa dove un certo numero di persone con la pancia piena e sazia di cibarie paga e offre bicchieri di prosecco. Il sapore che ha quella roba è qualcosa tra l’acido e la muffa ma ubriaca in fretta e costa poco. Ne butto giù pure io quanti riesco a prenderne.

Nei supermercati trionfano scritte come “ENJOY!” e “PALLE DI RENNA FORMATO FAMIGLIA IN OFFERTA”. Ed happy new year, ovviamente.

Il sindaco, per incentivare il commercio, ha piazzato sopra le vetrine dei negozi e dei bar degli altoparlanti che diffondono incessantemente le musichette natalizie. All’inizio non ci faccio caso in mezzo al trambusto, poi più il jingle continua a girare più iniziano a girarmi i coglioni a tempo di sonagli di palle di renna. Infine basta essere poco attenti e distrarsi un attimo per urtare contro uno di quei pupazzetti barbuti che appena li sfiori iniziano a simulare la grassa e porca risata di Babbo Natale :”OH OH OH”.

Proprio stasera credo di averlo visto dal vivo. Stava entrando furtivamente dentro il locale. Si è guardato bene attorno per assicurarsi che nessuno lo stesse vedendo ed è sgattaiolato per la porta del retro dove si è messo a fumare sigari e a buttare monete in una slot machine. Il gestore del locale gli ha sistemato una branda nello stanzino in modo che Babbo può restare a dormire lì quando esagera col bere.

Dalla finestra della mia stanza si riflettono sul pavimento le lucine rosse, gialle e blu, e riesco anche a vedere il balcone della casa del nostro Babbo. Le ante sono sempre spalancate e grondanti buste di immondizia; in mezzo, come a fare da ornamento c’è una vecchia seda Ikea pieghevole spaccata. In giro dicono che ci abiti un pazzo. Solo io so che ci abita Lui. Dorme sul divano con un dito nel culo davanti all tv accesa su trasmissioni di sesso telefonico.

Quest’ anno sembra avere la barba ancora più sudicia e unta, capita sempre più spesso che vada a rubare del cibo, qualche prosciutto o roba del genere durante le feste e che divorandolo avidamente si imbratti del tutto. Il whisky nemmeno lo aiuta ma gli dà quell’aria sorniona e bontempona che in lui tutti i bambini amano. Ha messo su ancora qualche chilo e in casa sua deve avere il cesso otturato. Credo che ultimamente abbia bisogno di un medico ma non ha i soldi per pagarlo, spende tutto in gioco d’azzardo, whisky, sigari e qualche mignotta a buon prezzo. E’ facile che lo vedi tornare a casa talmente ubriaco da reggersi sulle spalle del travestito che gli fa da accompagnatore. Ma rimane sempre di buon umore, ed è solito canticchiare ai trans delle canzoncine natalizie che si sentono fino alla mia finestra :

“non rubo in giro: faccio affari questo racconto ai miei compari… mi vesto ina maniera bizzarra ma solo per il gusto di trovarmi sempre al posto giusto… Mi vendo il culo e non mi lagno pur di avere un bel guadagno… Vado in giro per le strade facendo il compagnone finchè ‘sto popolo riman coglione… Sono un pezzo di merda ma non lo dici perche vi faccio alla fin felici…”

Ah! Quello stronzo di Babbo Natale ! Dove c’è il brodo lì inzuppa la pagnotta !

Molti non sanno che ha anche l’anima del pezzente. Si sente derubato di continuo ma non lo dà a vedere. E’ davvero avido fino all’osso. Non gli frega un cazzo se alcuni bambini piangono e restano senza regalo.

Gesu Cristo ha fallito. Ha lasciato che il suo compleanno diventasse la festa di chi se la può permettere. Io e quelli come me restiamo nella merda e siamo delle merde, e dei peccatori . Chi vive nel merdaio se ne fotte di Dio. Chi vive in centro si mette il vestito e va in chiesa. Sicuramente quando scenderò giù al bar dopo la mezzanotte troverò un branco di tossici che si faranno gli auguri e comprerò a debito la mia dose. Così si festeggia il compleanno del bambinello da queste parti.

Per il resto sarà tutto normale :anche quest’anno il buon papà della villetta vicino al centro sarà costretto ad andare nei negozi per comprare il regalino al suo bel bambino dai capelli dorati. Il bambino del mio quartiere invece avrà un destino leggermente diverso . Il suo vecchio uscirà di casa, sparerà un colpo di pistola in aria e rientrando gli dirà: spiacente ma Babbo Natale si è suicidato.

mercoledì 21 dicembre 2011

Polifemo


POLIFEMO



Brutte zoccole le donne: lo sanno che vuoi scopartele e ti girano intorno apposta per non dartela e divertirsi aumentando la propria autostima.
Allora il consiglio del Vecchio è che se vuoi avere un buon rapporto con le donne devi assolutamente far precipitare la loro autostima. Devi fare sempre il contrario di quello che si dovrebbe fare. Non fargli capire in nessun modo che sono importanti per qualunque cosa. Se sei onesto e dichiari apertamente che il tuo arnese ha bisogno del loro buco fica passi per uno sfigato o un fallito. Molte volte devi scrivere interi romanzi per ricreare tutta una situazione idilliaca libresca o hollywoodiana per convincerle che tu sia l’uomo giusto.
Ti ronzano intorno come falene, di notte, mezze ubriache, e tornano nelle loro case a spararsi i ditalini. Si appoggiano ora su un fallo ora su un altro ma rimangono delle maledette falene, che volteggiano cieche e impazzite, febbricitanti, senza rotta. Brancolano nel buio. Quando trovano il fallo giusto dove appoggiarsi lo contagiono con la loro febbre e lo costringono ad assimilare il loro colore. Finchè anche un insetto riesce ad avere la meglio su un bue.
E le stronzate diventano l’unica cosa importante.
Quello che conta realmente è trovare un buco, che sia fatto a forma di falena o di criceto non importa. Questo è il senso ultimo della vita. E’ questo che fa andare avanti il mondo che infatti sta marcendo, che infatti sta andando a puttane.
Le cose più mirabili si fanno per entrare in un buco.
Se su Marte ci fosse una gran fica a cosce aperte che gli uomini ci sarebbero gia arrivati e ci avrebbero portato anche la cocaina per fare dei rave.
Ciò che sorprende è che in genere l’uomo, dopo aver posseduto la donna, si rende conto di non averne più bisogno. Non appena muore lo scopata prova una sensazione di rifiuto verso quel corpo estraneo che gli giace ancora affianco, inerte, sul letto a gambe aperte. Glì serve il tabacco per far sfumare quella sensazione di vuoto e ipotizzare una continuazione dell’amplesso. Il sesso è un tappabuchi.
Quando dopo un certo numero di scopate, più o meno fisso a seconda dei casi, si instaura una relazione riconosciuta dalla società civile accade la stessa cosa. Una volta ottenuto il rapporto stabile e basato sulla fedeltà che prima ci faceva andare in ansia, riacquistiamo la vista scopriamo che è tutta una grande fregatura e che non ne avevamo bisogno. Anche lì bisogna correre ai ripari ma non basta il tabacco. In quel caso le scelte sono due: puoi farti un’amante o due o inventarti un vizio come l’alcool, il calcio, il gioco d’azzardo.
Nel caso sempre più frequente in cui si resta senza una donna, si è considerati degli esseri inutili, delle mezze seghe inette e disadattate. In parole povere la società ti dice: “Non è colpa tua ma devi morire perche sei una merda”.
Valgono solo quelli accoppiati, quelli non accoppiati erano fuori dall’arca di Noè!
Il nostro caro Franco era un amante di mignotte. Per tutta la vita non aveva preferito altro che andare con loro. Anime facili. Ogni notte una diversa, ogni tanto capitava la stessa. Ma i rapporti erano sempre fumosi ed evanescenti, sempre ridotti al sesso, alla chiavata, alla sbronza e poi si chiudevano le porte.
Il nostro Franco credeva di aver trovato così la stabilità, la serenità. Ma le donne non puoi prenderle esattamente cosi come se fossero usa e getta. Sono delle lamette difettose, prima o poi ti tagliano e ti fanno male. E possono succedere tutti i tipi di casini possibili.
Una mattina il nostro Franco tornando a casa dal nuovo centro scommesse trovò una lettera sul tavolo. Una bella ingiunzione di pagamento. Era stato condannato da un tribunale a versare mensilmente un’ingente somma di denaro in contanti a una donna, una delle sue signore, rimasta incinta.
La prima cosa che pensò fu di scappare in Brasile ma prima ancora si ricordò di essere sul lastrico. Poi si sistemò sul letto e sdraiato, si aprì una birra e iniziò a pensare.
Forse la birra gli fece male perché ebbe la fantastica idea di chiamare il suo avvocato che gli spillò fino all’ultimo centesimo per poi fargli perdere la causa. Il buon vecchio Franco dovette sganciare tutti i soldi mensilmente a quella donna in carriera con un bimbo. Il nostro puttaniere alla fine era di animo buono e iniziò anche ad avere sensi di colpa per essere un pessimo padre, praticamente inesistente.
Ritrovò Gloria (così si chiamava la professionista) qualche anno dopo per caso che usciva da un ristorante mano nella mano con un tipo alto e moro, tipo ballerino di flamenco, e con un bambino a fianco. Per un attimo provò anche una forte emozione credendo di aver visto per la prima volta sua figlio. Ma aveva fatto finta di non aver notato una fortissima somiglianza tra la faccia del bimbo e quella dell’uomo che era con lui.
Soltanto dopo scoprì di non aver mai procreato. Non era un cuor di leone e la sua rabbia e il suo disprezzo lo portarono ad andarsi ad ubriacare in tutte le bettole della zona. Prima di trovare un bar aperto pensava sempre di impiccarsi con la cinghia.
Poi tornò indietro sui suoi passi.
Scoprì dove abitava la coppietta e si mise ad aspettare quell’uomo con una spranga di ferro in mano a lato della porta d’ingresso della casetta al piano terra. Ci rimase piu o meno sei ore, finchè si fece mattina. Il nostro stallone uscì di casa in mutande sbadigliando e grattandosi il cazzo per vedere la posta e Franco gli fracasso la testa con quattro, cinque, sei colpi secchi sulla tempia.
Qualche anno dopo dissero che si era impiccato in prigione legato alla sua t-shirt attaccata a una grata bassa. A nessuno venne mai la voglia mai fare ulteriori indagini. Tantomeno al sottoscritto.
Sono così gli esseri umani, sono strani. Un attimo ci sono e l’attimo dopo non ci sono più.
Consigli per vivere ce ne sono tanti ma nessuno mi ha mai convinto. Dio, lo sport, i soldi, l’amore, il sesso contino, la droga, l’idiozia, la libertà.
Quando penso a un esempio da seguire penso solo a Polifemo. Il gigante ciclope.
Polifemo se ne stava all’interno della sua mastodontica caverna da solo. Nessun rapporto con nessuno, si rinchiudeva lì dentro appostando un enorme masso all’entrata e di tanto in tanto usciva e si guardava attorno con il suo unico occhio. Certo, soffriva un po’ di solitudine forse ma non aveva troppe idee che gli saltavano in testa. Quello che faceva era mangiare, espletare i bisogni defecativi e dormire. Stava bene tutto sommato. Molto meglio degli uomini che si affannavano e si azzannavano giù nelle valli nelle città come in assurdi formicai. Ogni tanto li osservava sospettoso quando li vedeva avvicinarsi nei paraggi con la coda del suo unico grande occhio.
Ma un giorno ci ebbe a che fare. Decise di mangiarseli. Quegli strani tesserini già gli avevano suscitato delle strane sensazioni di ira, rabbia , invidia e cupidigia. Era caduto già in trappola. Erano dei piccoli virus ma lui non lo sapeva. Pensava di essere piu furbo. Fino a quel momento era stato solo saggio ma ignorava che avere a che fare con gli uomini voleva dire prendere parte a quel mondo di scelleratezze e di tentazioni e rimanerne inevitabilmente coinvolto.
Venne accecato da uno di loro a tradimento. Con un palo infuocato. Era stato Nessuno.
Il grande Polifemo, che era un buono, fu incattivito, tradito, accecato e lasciato morire da un piccolissimo uomo insignificante. Una nullità esempio di vigliaccheria. Aveva commesso il primo e ultimo errore della sua vita : avere a che fare con gli esseri umani troppo da vicino.
Lo lasciarono così in preda al panico ad urlare il nome del suo feritore e a vagare cieco nella disperazione e nell’ira del suo inferno che qualcuno avrebbe dovuto prestargli soccorso.
Ma quella caverna ormai era un mondo dove c’era soltanto lui.
Non si seppe più niente al riguardo di questa vicenda, cosa successe al gigante e se riuscì ad uscire da quel buco. Ma io sono pessimsta al riguardo, spero soltanto che in quelle condizioni almeno non sia sopravvissuto a lungo.












domenica 27 novembre 2011

Il giorno dopo


Stamattina ho vomitato la bile. E’ un liquido di colore giallo-verde che esce dal fegato quando non ne può più di smaltire alcool. Fino a poco fa pensavo che stavo per morire e avevo paura. Ma ora sto peggio perché mi sono reso conto che non morirò così facilmente. Sono steso su un letto scomodo di una stanza polverosa. Sento un trapano perforarmi il cervello.

Non sono i muratori che lavorano qui fuori dalle sei di mattina in poi, è proprio il mio cervello. Tutto ciò che vorrei è puntarmi, in quel preciso punto del cranio, una pistola e fare clic.

Ripenso a come mai ogni notte devo aspettare l’alba bevendo e discutendo coi miei simili per strade opache e tristi, entrando in quei bar appena aperti per le colazioni di gente che va a lavorare. Li vedi li col cappuccino e un cornetto glassato ficcato in bocca. E ridi.

Ieri notte mi trascinavo come una lumaca sull’asfalto spingendo un carrello pieno di bottiglie e lattine di birra. A un certo punto ho preferito restare solo, alcuni miei amici a un certo punto diventano troppo sensibili, non reggono i miei discorsi forse e scoppiano a piangere. O forse scoppiano in lacrime per qualche altro motivo.

Ripenso anche a come ho fatto ad entrare in quella specie comunità di tossici.

Basta poco : io ero in via Verzieri a zonzo e facendomi i cazzi miei una volta tanto, ma l’occasione ti viene a prendere anche lì. Passa a prenderti ti porta con sé. Come dei flash rivedo le ore passate a Scampia. Rivedo noi ubriachi in macchina a cercare crack, a marciare per le vie del marciume. Rivedo la scritta all’ingresso : “se non trovi la bellezza, cercala dentro di te”.

Ho paura che dentro di me ci siano solo insetti e topi morti.

Come ho fatto ad entrare in quel buco fetido?

C’era una puttana per strada intenta ad aiutarci a trovare il crack. L’avevamo fatta saltare in macchina e ci portò subito sotto un palazzo enorme. Era la nostra guida spirituale, il nostro Virgilio. Sembrava davvero una di quelle puttane ottimiste e di sinistra. Non so come eravamo annebbiati e la puttana ci conduceva attraverso un drappo scuro sudicio appeso a un muro. Cumuli di rifiuti coprivano tutto, lacci emostatici, merde di cane, puzza di aids. E dalla fessura buia di uno di quei muri di cemento usciva un grassone, come fosse stato il protettore della mignotta, intento a fumare con noi senza aspettare inviti.

E’ strano poi in che modi strani si cerca di riparare ai danni cerebrali fatti.

Per calmarci la puttana ci consigliava di acquistare dell’ottimo Cobret tornando alla base. Ovviamente noi eravamo ragazzi coscienziosi e non potevamo fare altrimenti che accettare l’offerta.

Poi ricordo che il mio amico si era messo a piangere per aver perso una bottiglia di gin.

Una delle prime cose che ho fatto stamattina è stata frugarmi addosso per vedere cos’avevo ancora e l’unica cosa che ho trovato è stata il mio portafogli, pieno di scontrini, e completamente privo di carte di qualsivoglia valore.

Mentre scrivo vado velocemente al cesso a vomitare un po’ di schiuma.

Inciampo in un materasso e sbatto col piede contro la testa di Tony.

Stasera dobbiamo suonare in un locale e io sto male. Pure lui pare mezzo morto. Ma in qualche modo dobbiamo pur campare, mi ritorna in mente il fatto che la mia stanza buia e polverosa è in affitto e non so quando dovrò pagare la mensilità ma a breve.

Mi rimetto a letto, chiudo totalmente la tapparella, gli operai fuori continuano a fare un rumore infernale ma è quasi notte, devono essere le cinque del pomeriggio.

Sono uscito soltanto per comprare il tabacco e per mangiare qualcosa. Mi sono trascinato fino a una specie di panificio ed ho chiesto un panino caldo. Il ragazzo del negozio mi ha guardato in faccia spaventato ed ha consultato il proprietario. Subito dopo è tornato con due panini belli fragranti infilati in una busta di carta e non ha voluto essere pagato. Da non so cosa aveva capito che non avevo soldi e che stavo morendo.

Ottima cosa. Per avere un po’ di bontà dalla gente devi aspettare di crepare.

Ho divorato letteralmente i panini e ho bevuto a una fontana dove poco prima si era dissetato un cane. Mi sono sentito felice e appagato per quel poco come se in quel momento tutto il mondo stesse mostrando il suo lato buono.

Ero una merdina. Deambulavo come una foglia secca con un’espressione stranamente leggera e sofferente. Un folle.

Mi adagiavo come un escremento di cane sui marciapiedi.

Mi sostenevo sui cestini dell’immondizia lungo il prestigioso corso Vittorio Emanuele di fronte alla libreria Feltrinelli. Ogni mamma che passava raccomandava al suo bimbo di non diventare da grande come me. – Guarda Luca c’è l’uomo nero .- . – Mattia non ti avvicinare troppo al signore -.. – Francesco non indicare… - .

Sono tornato a casa completamente esausto e ora non ho altro che il trapano nel cranio e il letto polveroso. E solo qualche ora di tempo per stare un po’ in coma prima di andare a suonare in quel locale.

Ho una situazione instabile e in sospeso con una donna, spero non mi chiami ora. E infatti mi chiama, c’è il cellulare che squilla e si aggiunge al trapano nel cranio e ai martelli degli operai Non so cosa riesco a dirle.

Tutto questo malessere è anche colpa delle scopate che faccio.

Tre sere fa Martina mi ha chiamato, mi ha chiesto di fare un salto da lei.

Abbiamo scoperto di essere talmente di poche parole che per occupare il tempo abbiamo dovuto scopare subito, senza troppi convenevoli prima.

A letto d’un tratto mi ha preso per i capelli e mi ha portato con la faccia dentro la sua fica urlando –Lecca! Lecca ! -. Era un po’ irruenta ma la lasciavo fare. Con un salto mi è salita sul cazzo e mi ha sbattuto quelle grosse tette in faccia quasi a soffocarmi. Era un combattimento anche quello.

Ma ogni donna a un certo punto deve essere sottomessa così l’ho presa e l’ho messa a quattro zampe iniziando a stantuffare con colpi secchi e decisi nel suo deretano. Godeva come una troia mi pareva, ma il fatto è che le venni dentro. Ero un pezzo di merda. Si infilò nel cesso e tornò innervosità poco dopo dicendo di aver già avuto un aborto di recente.

Fumava nervosamente la sua sigaretta in accappatoio. Io ero ancora sul letto con l’uccello di fuori e attingevo ampie sorsate dalla bottiglia di vino sul comodino. La osservavo. Mi guardava incazzata.

Erano queste le mie scopate, le mie situazioni, le mie cose.

Duravano sempre poco e ogni piacere corrispondeva sempre e comunque a una inculatura imminente. Infondo non era male. Il giorno dopo c’era sempre qualcosa di peggiore.

sabato 12 novembre 2011

VENITE !

Marciare per le vie
Del marciume.
Marcire.
Commerci lerci
tra merci fradice naufragate
Faglie putride sterpigne,
Di rogna di fogna
Incancrenite.
Qui sopra alla porta
stagna una scritta:
Venite!

CHI RIDE E' UN POVERO PAZZO

Chi ride è un povero pazzo…
A volte mia anima è fatta di scontrini
Non ho migliori carte che farmi un drink
E chi ride è un povero pazzo.

Sei un pazzo quando sei solo
Essere soli da una vita vuol dire che sei sbagliato
Essere fatti di non essere
Vuol dire che è finito il teatrino di mostrare
Prima che si possa sollevare.


Trema di rancore la terra
E freme di fuoco e carne e trama
Rabbiosa carne
Tradisce arde brucia brama stranisce
A frotte
Strana…l
A picco crolla
una frana
ti rinchiude ti intrappola
negli antri di del ventre
di un manto scuro.

E stati agitati
Ricoprono la notte scura
E piu buia del niente
Finisce in un bicchiere di vetro che perde….
E crepa di rantoli e rabbia
E sento ancora il mio respiro
Ma non ho paura.

lunedì 31 ottobre 2011

L'ubriaco e la luna


“Quanto es mejor el vino quel el aqua…”

Se si spegnessero tutte le televisioni, e la gente per bene si spostasse dalle vie più “in” della città sarebbe sotto gli occhi di tutti che non esistono solo macchine da soldi, robot e burattini : c’è sempre qualcuno che soffre all’angolo, che vive magari scaricando casse di birra nella bettola di qualche bastardo. E poi c’è sempre un cuore di cane che vuole amare una cagna, che invece si defila indifferente e lo lascia a bere da solo in un bar di periferia.

Al mio amico Alex addirittura successe questo : era lì che aspettava il treno nella stazione di Bologna per scendere dal suo amore con un mazzo di rose in mano e due biglietti per volare in Spagna, verso le affollatissime isole colme di discoteche e gente finta e colorata. Aveva di certo ottime intenzioni. Marta, la sua donna, mentre Alex era in viaggio si era calcolata le ore (otto) e lo aspettava a suo modo. Lo aspettava sfogando su un ragazzo 10 anni più giovane di lei il suo fastidio di essersi accasata con birre e sesso. Mentre il treno scendeva da Bologna centrale verso Napoli centrale, Marta aveva un arnese piantato in mezzo alle gambe. Dopo qualche ora sarebbe stata invece una ragazza dolce, gentile e fedele.

Quella stessa sera mi giunse anche la notizia che la mia ex stava per celebrare le sue nozze con uno sfigato, e la cosa mi faceva sorridere.

Lo strascicarmi lento, pesante, curvo per strada era la fatica del mio vivere, diceva Emanuele. Un passo alla volta fino alla luna innalzando il bicchiere in un pugno come una spada. Mi sentivo il primo ubriaco sulla luna.

In altro modo non potevo arrivarci alla luna. Il mio letto era il marciapiede, i miei compagni le bottiglie vuote sparse e la polvere dell’asfalto.

Quello che lasciavo intendere era : -.Non mi si può raggiungere perché non sono sempre nello stesso posto, non mi si può nemmeno parlare addosso perché nel frattempo sono già andato via! -

Avevo imparato che il vero pericolo è quando qualcuno ti vuole aiutare. Meglio stare soli.

Restando, mettendo radici da qualsiasi parte và a finire sempre che uno stronzo finisce per comandarti a bacchetta. Perciò con la faccia spiaccicata sul marciapiede guardavo la polvere, stavo attento al fatto che si posava presto a terra, molto presto.

Tra il marciapiede e la luna mi chiedeva quanto contava l’amore. Contava tanto che le vene si stancavano molto prima che si fermasse il cuore. Nei rifiuti stavo e dai rifiuti venivo.

Forse era estate, così dicevano i manichini. Andavano sulla spiaggia, io restavo al bar semivuoto, afoso, appiccicoso con l’asfalto bollente che entrava dentro. E di notte, a parte la luna e io, rimaneva qualche mosca morta spiaccicata sul pavimento.

Nessuno ci credeva, soprattutto l’uomo della luna, che saremmo restati e finiti qui proprio noi , a doverci prendere le colpe e le rogne di questo posto. Ti trattengono, vogliono farti restare, e si resta consapevoli del fatto che ti stanno derubando, che limitano il tuo spazio di vita a quelle poche ore che passi al bar.

A parte le mosche, al bar quella notte fece la sua triste comparizione Toni, con la sua faccia pallida da lampadina fulminata.

Toni era andato due volte in coma etilico, era entrato ed uscito dall’inferno, aveva toccato con mano. Ora giaceva con gli occhi sbarrati, un bypass al cuore e un boccale di birra in mano davanti alla porta. Nonostante tutto gli era sempre stata vicino una donna, che aveva sempre convissuto coi suoi deliri, e stranamente lo amava . Si trascinavano anche loro. Toni andava a puttane polacche e Margherita sognava un uomo migliore.

Io giocavo alla roulette russa col passato, uno solo doveva spuntarla, in due eravamo troppi. Era solo questa la lotta che mi potevo permettere, essere tagliato fuori dalla civiltà era già un piccolo lusso.

Toni era un ex skinhead, aveva una pistola e un coltello sempre appresso. Puntò la pistola sul bancone e mi chiese di scegliere: morire una volta per tutte senza strascicarmi più o guadagnare la vita. Era un gioco che aveva senso per me in quei momenti, nonostante quella proposta suonasse come una minaccia. Non avevo nessuna vita da perdere e forse una da guadagnare, così giocai.

Io ero lucido, Toni era in preda al delirio, parlava a sé stesso e si ripeteva : - Fottuti ebrei del cazzo… fottuti froci…che mondo di merda…perché vivere in questo mondo di merda… che schifo… che schifo…dovrebbe tornare Hitler per sistemare un po’ le cose!...Siamo finiti in mano ai froci, ai negri e agli ebrei! Porci schifosi….Ma io gliela farò pagare…si …gliela farò pagare…-.

Non gli rispondevo niente, il mondo mi appariva soltanto ancora più triste di quanto già non fosse. L’umanità era avvolta da una sola grande infinita tristezza.

-Dai inizia tu! – mi chiese Mario. (“…fottuti froci del cazzo…”)

-Ok- inizio io.

Guardai la birra, la mia faccia si specchiava deformata sul suo collo verde, ero sereno, si stava avvicinando la fine, ero alle strette. - Un solo colpo, un solo colpo, sereno, ed è finita-. Prima di farmi fuori non pensai a nessuno, vidi un cielo azzurro, mi misi la pistola sulla tempia, sparai con gli occhi aperti.

La pallottola restò dentro, non era toccato a me. Il mondo tornò marrone, grigio, livido.

Prese la pistola Toni e se la infilò in bocca in un attimo ridendo nervosamente, mi guardò negli occhi e sparò. Niente. Il suo cervello restò integro.

Poi restò immobile, sbiancato, come se avesse visto l’inferno.

-E’ il mio turno- dissi.

-No, non ti regalerò un’altra opportunità, stavolta sparo io… -. Si diresse fuori dal locale con la pistola in mano, il fatto che nessuno ci avesse notato era la cosa più sconvolgente. Si sedette su un muretto e si accese una sigaretta.

Io ero sul tavolo, la birra era ancora li. Sentii un colpo fare cilecca, poi un altro. Anche il terzo fece cilecca.

Tra l’uno e l’altro non so quanto tempo passò, Il quarto colpo non fallì.

Non sapevo se avevo realmente guadagnato la vita o se avevo perso l’occasione di sparire. Mi sentii ancora più inutile, la mia vita non valeva di più di una pallottola. Quanti pensieri avevo in testa, Toni di sicuro ne aveva di meno ed era riuscito a spararsi. Vedevo solo me stesso e i miei pensieri, i miei problemi, il resto mi girava attorno.

La mia ragazza non ne poteva più di me, delle cazzate che le dicevo, cercava di lasciarmi in tutti i modi ma non ci riusciva, qualcosa la faceva sempre tornare indietro. Sapeva che cercavo di giustificare il fatto che fossi una nullità. Si disperava e piangeva, aveva commesso l’errore di affezionarsi troppo a me. Era consapevole che stava sprecando la sua vita così come la stavo sprecando io, sapeva che la mia vita era corta e si stava accorciando anche la sua. Non prese mai una decisione, né il tempo la aiutava.

La chiamai. Mi misi in macchina prima che arrivasse la polizia o i carabinieri, e andai via. La chiamata nel cuore della notte la spaventò.

-Vuoi partire con me per Singapore?-.

-E’ uno scherzo?-

-No-

-Quando?-

-Adesso-

-Luigi, sei ubriaco, stai impazzendo, io non ce la faccio più…-

-Io vado, non sarò raggiungibile-.

Forse non sentì nemmeno la mia ultima frase perchè attaccò il telefono, pensava al mio ennesimo delirio da ubriaco, non potevo biasimarla. Non avevo guadagnato la mia vita quella sera, ma l’avevo regalata a lei, almeno a lei. Adesso era libera, adesso era viva.

Ogni cosa al suo posto, lei sposata con un onesto lavoratore, e io a Singapore, un posto a caso, abbastanza lontano.

Se avevo perso qualcosa, avevo guadagnato anche qualcosa.

Nella mia mente solo pistole metaforiche, fantasmi in carne ed ossa, specchi fatti di colli di bottiglie di birra.

In paese dissero che morì con una birra in mano e qualcuno disse che invece si era trasferito a Singapore e viveva in un container lungo il porto cibandosi di avanzi.

Non si capì mai la differenza.

Quando sei solo


Quando sei solo nessuno

Vuole vederti

Quando sei solo le donne

Trovano sempre un altro

Impegno,

gli amici non escono e

restano a casa.

I bar chiudono.

Piove.

Quando sei solo negli

Occhi di chi ti sta intorno

Sei un pazzo.

Quando sei solo in mezzo

Alla gente.

Bevi un whisky

Ti rendi conto che

Sei troppo poca cosa.

Vuoi evitare di farti domande

Che

Potresti sapere la risposta.

Il Papa sulla sedia elettrica

Il Papa sulla sedia elettrica

Tutti lo dovrebbero sapere

Che gli ombrelli costano di più

Quando piove…

Che anche le donne sono usa e getta.

E cadono sempre in piedi come i gatti.

Che i soldi dati ai preti non finiscono ai poveri.

Che maledico congreghe, partiti, laici e santoni

Istruzioni, istituzioni e pubbliche istruzioni.

Poeti oratori monaci e fazioni.

Che non prediligo

Alcuna scelta ascetica.

Che ho sognato il Papa

Sulla sedia elettrica.

Lettere d'amore

Lettere d’amore

Come diceva la mia ex

Val sempre la pena di amare qualcuno.

Di viaggiare insieme nel mondo dei sogni

Oltre l’arcobaleno…in piedi oltre i confini…

Vedere la luce del sole più vicina

Poi mi lasciato regalandomi

Una cartolina.

Lettere d’amore bruciate nel cesso

Che mi aveva regalato la mia ragazza.

Le do fuoco con l’accendino

E le getto nel lavandino.

Le faccio volare in aria

E le butto nel gabinetto.

Parole sincere

Vomitate del cuore

Di istanti che volevo restassero

Immobili… perduti.

A volte li vedo ritornare nelle vetrine appannate dei bar.

Ma non resta che cenere e gesso

Di bigliettini perduti

Di lettere…

…d’amore impiccato…

alla catinella del cesso.

domenica 23 ottobre 2011

Bad as me - single

"Sei la mosca nella birra
sei le chiavi che ho perso
sei la lettera di Cristo sul muro di un cesso,
sei la madre superiora in reggiseno,
sei della stessa brutta razza mia"
(Tom Waits)


http://www.youtube.com/watch?v=cUhnQzjXHHY

Periferie

Ero fermo davanti a un bar di periferia sputando sorseggiando un whisky sputando nervosamente sul marciapiede. Mi grattavo la barba folta e sporca. Maledivo la gente che avevo intorno che parlava soltanto di moda e prodotti da acquistare.
Le periferie sono i luoghi dov’è confinata la mia anima, intrappolata inevitabilmente ai margini in mezzo alla feccia. Sono luoghi creati per tenere confinati i pezzenti, cioè la quasi totalità della gente, dai quartieri ricchi. Sono considerati degli errori, delle macchie che offendono il centro splendente e benestante. Ma sono proprio quelli gli unici luoghi in cui la vita è vera, lì dove la vita è una porcheria.
Mi trovavo in uno di quei grandi quartieri grigi della litoranea. La differenza tra la campania costiera e la campania interna è che nella prima sparano agli altri, nella seconda sparano a loro stessi. La paranoia è la stessa ma in dosaggi diversi e in modalità diverse. La gente aveva paura di uscire senza un grosso cane da combattimento al guinzaglio o un coltello a serramanico in tasca o una pistola. I padroni della città dormivano nelle loro ville miliardarie, la gente in massa chiusa in casa e c’erano solo poche anime perse sputate fuori in strada. Ero in disparte, mi rivolgevano la parola solo per chiedermi sigarette. Alcune persone hanno l’aria da fumatori così marcata che li riconosci subito da lontano perchè sono avvolti da una strana luce triste e opaca. Io ero tra questi. Decisi di andarmene di lì prima che mi finisse il pacchetto ragionando sulla differenza tra me e un barbone qualsiasi. In realtà siamo tutti parte dello stesso cumulo di rifiuti.
Siamo stati generati dai microbi, da quell’insieme di microbi che chiamiamo Dio.
Arrivai fino al portone d’ingresso di casa. Non vedevo bene il buco dela serratura, la chiave non funzionava bene. Detti un calcio alla porta, provai a spingere ma non si apriva. Decisi molto in fretta di restare la notte in strada. La mia casa mi sputava fuori. C’era un forte vociare proveniente da un vicolo poco distante, andai verso di li. Era l’ingresso di una lugubre discoteca con tanto di buttafuori con occhiali da sole davanti all’ingresso. Non avevo i 30 euro per l’ingresso e comunque non li avrei spesi per entrare lì, così restai a ciondolare li fuori come un minchione.
Tutti gli angoli, i pezzi di asfalto, le facce, i palazzi dei posti che frequento mi fanno venire in mente sempre l’immagine dei topi che frugano nella fogna in cerca di qualche piccola schifezza da mordicchiare.
Tutti i posti si confondono gli uni con gli altri. Cambiano i palazzi ma i topi sono gli stessi.
Il buttafuori mi riconobbe. Era il tipo grande e grosso che una notte prese a mazzate me e i miei amici. Mi intimò di andarmene e mi chiese dov’era l’altro mio amico, quello coi capelli lunghi. –E’ in Spagna – risposi. –Che ci restasse! E tu vattene! -.
Capii che era stato fin troppo gentile visto che non avevo ancora qualcosa di rotto cosi mi defilai un po’. Feci qualche passo e mi appoggiai al muro sfinito come in attesa di vomitare.
Sentii urlare dal profondo della sala del locale nel seminterrato. Facevano spazio e urlavano. C’era un ragazzo con un coltello conficcato nella gamba per terra e nessuno voleva prenderlo in braccio e portarlo fuori per paura di sporcarsi i vestiti. Erano tutti al cellulare a chiamare qualcuno. Poi qualcuno lo portò fuori, era un ragazzo magrissimo intorno ai 20 anni, piangeva e urlava – mamma, mamma-. Si dimenava e si disperava anche per aver sporcato i vestiti e strappato il pantalone. Ci fu una rissa, io aspettavo solo l’energia giusta per staccarmi dal muro e andare a dormire da un’altra parte. Il ragazzino continuava ad urlare, pareva che non avesse degli amici disposti a difenderlo e cercava di rispondere da solo verbalmente con offese e finte minacce. Pensava probabilmente che ormai il peggio fosse passato, invece qualcuno sbucò dalla folla e gli piantò una nuova coltellata all’altezza dello stomaco. Vidi il suo volte diventare bianco in un lampo e sentii entrare nelle mie narici la puzza di merda che gli fuoriusciva dall’addome.
Era proprio giunto il momento di andare via. Ebbi lo slancio giusto solo quando iniziai ad avere paura. Mi misi a camminare velocemente ma non riuscivo ad avere dei passi coordinati. Credo che inciampai e mi trovai davanti la faccia di uno sbirro che iniziava a farmi domande. Che ci facevo in quel locale, che ci facevo in quella città, che ci facevo a quell’ora, perché puzzavo di alcool. Mi chiedeva tutte quelle cose a cui nemmeno io sapevo rispondere. Ero sospettato, ero un barbone del cazzo. Mi salvò soltanto l’arrivo sulla scena di un ragazzo del piano di sopra che sentendo dei rumori era sceso a vedere. Visibilmente fumato in pantofole e col pigiama del Napoli, gli sbirri all’improvviso mi lasciarono perdere e si fiondarono su di lui. Ebbi il tempo di imboccare un altro vicolo. Mi infilai in un altro bar che aveva appena aperto. Giocavano a carte. Mi sedetti e ordinai una birra. Avevo trovato il mio giaciglio.

poesia del cazzo rattrappito

Ho il fegato a pezzi e malandato
lo stomaco perforato
il cazzo rattrappito
le gambe doloranti

Ho ottant'anni
ma ne dimostro meno.

lunedì 26 settembre 2011

Matrimonio

Vivo qui. In un piccolo paese di stronzi, dove anche chi viene da fuori lo diventa. Sono troppo nervoso per scrivere, ho troppa rabbia da cacciare fuori e troppa repressione.

I miei amici non hanno capito che sono morto. Non esiste più da parecchio tempo, io continuo a dirlo, a scriverlo, a mettere i manifesti e loro manco per il cazzo.

Ok, io mi metto nel cesso come i vecchi tempi, sbatto a terra la chitarra, scrivo poche righe nervose, con l’alcool di prima ancora in testa che scende piano piano fino a farmi precipitare con la testa sul pavimento.

Basta compromessi, ora basta. Devo maledire Dio per quello che mi ha fatto. Devo trovare una qualche forma di dignità nel stare antipatico anche a me stesso. Non mi interessa nemmeno più tutta questa massa di mignotte che mi balla intorno.

E’ ancora estate, qui anche le stagioni non hanno senso. Non fa alcuna differenza. E’ un’estate depressa, paranoica, buona per suicidarsi. Anche i camerieri in quella fogna di bar di paese ti trattano male con la massima cafoneria possibile, zoticoni usciti dalle caverne. La loro vita vale quanto quella di una mosca, stretti nella morsa della tirchiaggine, figli di puttana con seri problemi mentali associati a quozienti intellettivi molto bassi. La bettola è travestita da locale moderno alla moda, come i suoi clienti. E’ la vetrina della tristezza che si vive: la vetrina dei tarocchi, delle false troie, dei finti in tutto, degli annoiati, di chi si deve divertire per forza. Il divertimento in certi casi è molto più noioso del lavoro. Mentre sto fermo il barista cavernicolo mi urla contro i suoi ragionamenti da ritardato con fare ridicolo, fuori dal mondo e io non lo seguo. I ragazzi, tutti, hanno smesso di fumare, allora vengono da me a scroccare sigarette, dopo mezz’ora me ne hanno fregate dieci. Alla fine viene l’ennesimo e lo mando a fanculo. Un coglione imbottito di psicofarmaci con la faccia da ebete che pare rassegnato o contento di stare in questo piccolo ritrovo estivo di pezzi di merda.

Ho preso l’abitudine di bestemmiare Cristo, la Madonna e tutti i santi continuamente. In questo mi sono adattato al contesto.

Sono invitato al matrimonio di mia sorella. L’invito è arrivato come l’ultima spiacevole notizia di una giornata costellata di infelici eventi e tristi notizie. La morte di uno, la depressione clinica di un altro, la miseria dei più. Ma al matrimonio siamo tutti ricchi. Io sono invitato. La prima cosa che mi chiedo è che cazzo mi hanno invitato a fare e soprattutto come gli è saltato in mente, non hanno capito che sono morto??? E poi dovrei fare il testimone…ma questi sono pazzi?

C’è stato un clamoroso boom di matrimoni quest’anno, non sanno proprio che cazzo fare questi deficienti. Si accoppiassero pure, firmassero i loro luridi contratti schifosi alla presenza di quel sindaco fantoccio e puttaniere mangiasoldi col suo gran culo sulla poltrona. Si allontanassero da me almeno.

I miei parenti sono dei grandissimi bastardi, alcuni talmente snob, presuntuosi, marci dentro e merde totali che fanno finta di non vedermi quando mi incontrano con aria sprezzante e di superiorità. Questi saranno gli invitati del cazzo che avremo alla festa. Ecco, io gli farei un buco in fronte e un altro in culo, invece no, dovrò essere li con la cravatta. In più gli invitati extra totalmente a me sconosciuti proveniente dalla Francia, dalla Germania e dalla fottutissima Svizzera. Quel paese che oltre gli orologi a cucù ha sfornato più meridionali tornati peggio di prima di qualunque altro.

Naturalmente un anno di rompimento di coglioni per i preparativi. “mi compri la macchina delle bolle di sapone? “ si come no, col cazzo, gli anelli nuziali e quant’altro. Scambiamoci finti regali, finti sorrisi e poi andatevene all’inferno.

La mattina del matrimonio sono tiratissimo, vestito come un manichino da quattro soldi. Sveglia alle cinque, sono ancora ubriaco. Mi butto nel primo bar che trovo, mi chiamano, mi sgridano, mi tirano per la giacca, mi fanno gli auguri, mi salutano, qualche vecchia stronza mi dà un pizzicotto sulla guancia e poi vengo scaraventato sull’altare vicino agli sposi.

Il prete dice le sue stronzate, io mi estraneo totalmente. Ho un conato di vomito. Cazzo mi sta uscendo proprio ora, sarà questo posto di merda, queste facce di cazzo, tutta questa situazione malata e patetica. Il prete dice –alzatevi figlioli …i vostri cuori….- e stronzate varie, io non mi alzo. Resto seduto. –C’è qualcosa che non va? – mi chiede la sposa . – Io vado al cesso a vomitare - . Un attimo di panico tra gli sposi e tra tutti, il prete sorride dal nervosismo, io vado nella sacrestia a pochi passi e mi infilo con la testa nel cesso. Torno totalmente sbeffeggiato da tutti e deriso. Dopo cinque minuti anche le pietre sapevano che ero un alcolizzato. Fuori dalla chiesa, a matrimonio fatto fioccano confetti e flash mentre io sto al bar.

Seconda parte : il pranzo. 350 invitati. Ci dirigiamo verso un ristorante-caserma a un’ora di macchina. Tutti legati sulle sedie come dei bambolotti, sequestrati. I convenevoli e le solite minchiate. Mi ubriaco come un cesso, bevo tutto il vino che ci servono. Vengo chiamato per fare un balletto al centro della sala. Mi alzo e vado al cesso a cacare. Torno e mi vado a sedere ubriaco fradicio. Mi alzo, barcollo, mi tolgo la giaccia sporca di vino, mi si avvicina mio padre : - Sei una vergogna, tutti ti ridono dietro - . – E ridete vaffanculoooooo! – dico appoggiandomi a una siepe che non mi mantiene e cado a terra. Tutti ridevano muti, non lo davano a vedere.

Devo scappare da questo matrimonio del cazzo : progetto una fuga come da un carcere ma è tutto inutile. Altre sei ore di commenti. Ritorno in macchina coi miei genitori e i genitori dello sposo. Il mio cervello riceveva tutte le loro critiche intanto pensavo a quando sarei tornato per i fatti miei.

Ecco qua, vi porto pure i cofanetti delle bomboniere maledette su e addio. Corro verso il primo bar.

C’erano due tipi dei soliti che frequentano la bettola. Occhi spenti al pavimento, tasche vuote, birra in mano. La cameriera sconsolata lava i cessi, io mi prendo un whisky. Fa pure freddo ma quasi quasi stanotte dormo qui sul marciapiede.

http://www.youtube.com/watch?v=Fm-OvHnVnvc

Il rumore del bar

Il rumore del bar

“Si riparte dai cunicoli,

da dove la strada

è finita.

Si annega in un lampo

Basta guardare fuori

Per scampo

Tra le dita.”

Eravamo nel tombino dell’inferno. Seduti a un tavolino opaco, orologi che segnavano le ore oscillando, le due o le tre di notte. Billy parlava in modo pesante, le sue parole cadevano dritte nel whisky. Era un uomo grasso e flaccido sui quarant’anni con la faccia grossa e brufolosa, pochi riccioli unti sul biondo scuro arruffati. Indossava una pelliccia unta anch’essa e dei blue jeans.

Katia stava seduta alla sua destra con un sorriso nevrotico di denti al tabacco su un rossetto spaccato e un fondo tinta forte. Aveva dei tacchi troppo alti su cui dondolava, un jeans stretto che le mostrava un culo ancora abbastanza attraente e un po’ sceso e un giubbotto di pelle cortissimo. Fumava ininterrottamente. Era una donna sfiorita anche lei sui quaranta che si lamentava di aver buttato la sua giovinezza e sperava di essere ancora abbastanza bella per trovare un uomo ricco che la facesse campare da regina.

Ero lì con loro perché lei quella sera aveva deciso di offrirmi da bere. Ci eravamo visti poco prima; era stata tutto il tempo a maledire quel suo uomo che, diceva, la trattava da puttana. Continuava a chiedermi : - Io sono una puttana!? Io sono una puttana !? Le puttane sono quelle che stanno con gli uomini soltanto per soldi! Non io! -. Era scesa di corsa dalla sua macchina e aveva deciso di ubriacarsi come suo solito, era finita in quel posto e aveva trovato me. Io volevo soltanto bere e stare in pace, come mio solito. Al quarto vodka tonic, credo, tornò il suo uomo scendendo traballando lento e sfatto dalla sua Alfa Romeo, Billy. I due si guardarono, lei gli sorrise, lui aveva la sua faccia grossa, grassa e strana fissa con uno sguardo indifferente.

Ci trovammo così parcheggiati in quell’ angolino senza bussola, come se non fosse stato niente e senza sapere il perché. Dall’altra parte del bar c’erano i ragazzi vestiti bene che commentavano le partite e facevano discorsi stupidi. Stavo meglio al mio tavolo in disparte dove non ero costretto nemmeno a parlare né a commentare niente. Era Billy che aveva preso il discorso, lei rideva soltanto e gli diceva di andare a pagare altro da bere per me e per lei. Billy forse per darsi l’aria del magnaccia andava a pagare tutto. Ero quasi ubriaco. Ma ogni volta che tornava al tavolino con i drink diceva che era l’ultimo e poi voleva andarsene, probabilmente voleva dare un segnale a Katy di andare a scopare. Katy invece ogni volta che lui andava a prendere da bere mi diceva : - Non ti preoccupare, io voglio te! – e rideva con le sue labbra folli e nevrotiche. Lui intanto tornava e blaterava qualcosa che io non ascoltavo bene, estraniato. Mi chiese qualcosa e io risposi soltanto sillabando : - Non è facile… - , e lui : -Lo sai una volta mio nonno a 90 anni mi disse soltanto questo quando gli chiesi come cazzo ci era arrivato a 90 anni, mi disse “non è facile…”. - . E lo disse con una certa enfasi che la cosa acquistava davvero un senso.

Non è facile trovare un bar dove ti lascino in pace. I bar che frequento io sono sempre sulla via del fallimento. Dopo un pò chiudono e mi lasciano orfano. Ma meglio i bar dei falliti, almeno quelli sanno di non esistere per nessuno, troppa gente altrove pensa di esistere sul serio e di contare qualcosa davvero. Meglio chi conosce poco e ha poca curiosità. Io sto sempre nei posti in cui le occasioni sono sprecate e aleggia nell’aria il pensiero : “lo farò nella prossima vita”.

Non mi importa molto dei grandi viaggi dei grandi sogni, delle grandi storie,delle grandi passioni. Mi sento più realizzato a chiudermi nel cesso di casa mia, fumare e scrivere tre o quattro poesie. Restare in mutande nella penombra, magari leggere due stronzate sul giornale, birra sul comodino. Farmi una sega. Cacare. Quello che c'è fuori non mi interessa.

Alla fine Billy dovette desistere perché Katy voleva continuare a bere con me. Sentivo come bruciava dentro quell’uomo con la sua bella macchina, il suo lavoro e i suoi soldi che tornava a casa da solo e si metteva in mutande con la testa nel frigo e poi davanti alla tv a farsi una sega. Prima di andarsene Katy gli fece pagare soltanto un altro giro di vodka tonic e poi lo salutò affettuosamente spiaccicandogli le labbra in faccia. Rimanemmo da soli al bancone. Tornò a chiedermi : - ma io ti sembro una puttana? Solo perché sono più grande di te, ma a me piacciono i giovani! - . E si mise sullo sgabello con le cosce aperte mostrandomi tutta la sua femminilità. Era riuscita a farmi venire l’intenzione di scoparmela ma ero quasi ubriaco, mi andava bene anche restare ancora lì. Continuammo a parlare di sesso e moralità e del fatto che lei non era una puttana. Mi riempiva di complimenti, mi diceva che ero bello, intelligente, simpatico, istruito. Pensai che chiunque ogni tanto aveva bisogno di sentirsi dire cose del genere da qualcuno, come terapia. Mentre discutevamo si fece largo proprio in mezzo il Maestro con l’aria di aver fretta e rivolto al cameriere ordinò: - un botti di Natale-. Diceva così quando voleva ordinare del vino. Sapeva che era uno schifo quello che gli versavano, allora come per prendersi gioco di sé lo chiamava con altri nomi, ad esempio “un rosso antico”. Il Maestro era identificato e conosciuto per il suo attaccamento allo strumento : era un suonatore di trombone, sui 50 anni, divorziato da una rumena. Viveva nella casa dei suoi genitori defunti in un vicolo vicino al bar. Ordinava sempre “bot-ti di na-ta-le” sillabando e scandendo bene. Spesso si spegneva e poi si riaccendeva, si addormentava sul bancone dopo qualche litro: era il mio interlocutore preferito di molte serate invernali. Certe sere trovavo solo lui come compagno per bere e tra un pezzo di Thelonius Monk e un “Botti di Natale” ci ubriacavamo. Da queste bevute ne derivò che organizzammo una serata in un piccolo centro sociale in paese. Lui al trombone, io alla chitarra, un altro al pianoforte. Jazz e “botti di natale”, il nostro paese era New Orleans; vino cotto in una pentola appoggiata su quattro listelli di legno messa sopra al fuoco di cinque o sei candeline. Nella sua ubriachezza e nella sua sottile follia riusciva sempre a mantenere una certà dignita. Era la dignità del musicista jazz mancato, che lo era diventato comunque, da qualche parte in qualche mondo suo, variopinto.

Un canticchiare “vai vai vu va vu vai vai…” accompagnava sempre il Maestro mentre usciva dal bar.

C’era anche una canadese che lavorava in zona che di tanto in tanto quando staccava veniva a bere lì. Mi era simpatica e parlava solo con me perché io ero l’unico del paese a saper parlare inglese e gli facevo da interprete. Ogni volta ordinava un Long island, un Negroni o un Manhattan, eppure l’avevo capito che nessuno da quelle parti li sapeva fare. Però continuava a chiederli perché doveva ricordare a tutti che lei non era una derelitta come noi.

La canadese si scolava il suo drink fatto male e io rimasi di nuovo solo con Katy. Iniziava a dirmi sempre più chiaramente che voleva fottere e io cambiavo discorso dirottandolo su un altro giro di vodka tonic offerto da lei.

Pensai : “E’ una puttana che a volte ti insegna che l’alcool in certe occasioni è meglio della fica”.

Ero ormai ubriaco, presi il mio ennesimo drink e me ne uscii fuori a fumare lasciandola sola e china sul bicchiere.

Fumavo e aspiravo anche la nebbia. Un ragazzo che sornione aveva assistito a tutta la scena le si avvicinò al banco, e gli chiese ad alta voce di andare a scopare. Katy ritornò nella paranoia da cui era uscita parlando con me, perse la calma ottenuta e rispose con una crisi isterica da ubriaca. Tornò il solito rumore del bar . L’avevano presa per una puttana.

mercoledì 24 agosto 2011

Non mi importa molto dei grandi viaggi dei grandi sogni...

delle grandi storie...delle grandi passioni...

Mi sento più realizzato a

chiudermi nel cesso di casa mia

fumare e scrivere tre o quattro poesie.

Restare in mutande nella penombra,

magari leggere due stronzate sul giornale,

birra sul comodino.

Farmi una sega. Cacare.

Quello che c'è fuori non mi interessa.

giovedì 11 agosto 2011

Il fallimento di Cristo


È venuto ha parlato

ha detto tante cose belle

che non sono servite a un cazzo.

...

E' tornato è in tv

quest'anno è in offerta

con la familiare di

Coca Cola.

E' venuto ha parlato

ma il suo compleanno

è la festa dei drogati

dove per darsi animo

ci si fa il doppio

e in alcuni casi

si muore

se non si sopravvive

dopo il vomito.



La mia malattia

Credo di avere qualche malattia, ne sono sicuro. La rabbia e il bere mi stanno perforando lo stomaco, forse ho un’ulcera. Sto crepando.

“Quelli come te non hanno la minima speranza di cavarsela nella società” , aveva ragione mio padre. Vado in giro di notte come un pazzo per non vedermi gli occhi della gente addosso.

Se fossi una donna darei via la fica, invece così non posso neanche vendermi, non posso nemmeno dare via il culo. Mi chiama spesso la ragazza con cui sto o con la quale lei dice che io stia e mi dice di smetterla di bere, di smetterla di fumare, di smetterla in tutto, di calmarmi. Ma così non facilita le cose. Nessuno può interferire con il mio piccolo spazio alienato di solitudine alcolica notturna, perché me lo sono guadagnato. E’ il frutto dei miei fallimenti e delle mie miserie, dopo anni di fatica per togliermi dai coglioni l’un per cento delle persone che detesto e che mi danno fastidio almeno per poche ore al giorno. Non ho desideri di integrazione in tutto questo che mi circonda, preferisco stare nell’angolino scuro del globo dove il sistema antropoemico mi ha vomitato.

Sono in netta fase avanzata di accettazione del mio destino. Siedo al bancone come un buddista in meditazione spirituale, prove di annullamento dell’esistenza. E’ un mare velenoso e molto pericoloso da cui vogliono tirarmi fuori continuamente e da cui non voglio uscire.

Ho preso il vizio della risacca, vivo nella schiuma di birra del giorno dopo, nei postumi, nei cerchi alla testa incessanti che hanno fine solo nel momento in cui parte un’altra onda e poi “bam!” si ricrea altra schiuma per il giorno successivo, e così all’infinito. E’ questo il mio modo di partecipare alla follia collettiva di vivere.

Ricordo alcuni esempi illustri di vite che hanno attraversato per puro caso ( o forse no) la mia infanzia, gli anormali del paese, gli Antonii.

Il primo Antonio andava in giro per il paese in tondo nella pista del campo sportivo. Girava muto con la sua pancia da bevitore incallito e la faccia rossa erosa dall’alcool ragionando tra sé : ”…ma si quera puttana ri mamma e quiru strunzu ri papà so gghiuti a mett’a lu munnu unu com’a me…”. Nessuno capiva come ci si poteva ridurre cosi, nemmeno io, fino ad ora. La sua morte fu per arresto cardiaco, per strada.

Un altro Antonio invece urlava contro il farmacista che gli aveva fottuto i soldi delle medicine e contro il funzionario del comune che gli aveva fottuto la pensione sociale. Pretendeva rispetto, birra e sigarette in quantità. Aveva una tipica camminata “a pedalata di bicicletta” e una parlata strana che tendeva sempre al labiale. Era parte inconsapevole di un film muto. I ragazzini, stronzi, si divertivano a provocarlo per fargli bestemmiare la Madonna. Morì di freddo in un prefabbricato costruito dopo il terremoto del 1980.

Poi c’era il più filosofo degli Antonii che dispensava la sua saggezza e la sua esperienza con frasi ad effetto. Parlava canticchiando, era reso simpatico dal suo attaccamento al vino. Era l’unico caso di un pazzo riconosciuto furbo dal popolo forse per via della frase che diceva più spesso : “i mi fazzu li cazzi mii “, un po’ il motto del paesano medio. Fino a che non morì sfracellandosi contro un tir sulla statale Ofantina bis.

Nei vicoli del paese, quasi per nascondersi, c’era il ricchione, un quarantenne in tuta mimetica che non aspettava altro che arrivassero i ragazzini a fumarsi le sigarette di nascosto per provarci. C’era una donna anziana che la gente associava a una specie di strega, di janara o di masciara che andava in giro con una mantella scura e un corno per richiamare i suoi cani. Ci metteva paura e ci scacciava con le sue maledizioni, probabilmente a ragione, e aumentava il nostro senso di inconoscibilità di quei vicoli e quindi di scoperta dell’occulto. Il periodo della scoperta credo che finii proprio quando vedemmo la prima fica.

I bambini sono stronzi,la prima volta che restai solo fu perché i soli due amici che avevo avevano appena avuto in regalo la bicicletta e mi lasciarono per quella. Restai lì sulla breccia. Intuii per la prima volta che c’era qualcosa da pensare, qualcosa su cui riflettere ma non capivo cosa.

C’era sempre il pezzo di merda che si innalzava a capobanda e a tiranno e lo sfigato maltrattato e umiliato. Io cercavo di cavarmela a non farmi trascinare verso quelli maltrattati, purtroppo mi ci ritrovavo sempre insieme, erano i migliori amici che avevo. Fabio era uno di questi, mi ritrovavo spesso a parlare con lui. Molti dei suoi cappotti gli “amici” glieli buttavano nei bidoni della spazzatura. Una volta ci buttarono anche lui per intero. Me lo ritrovavo spesso attorno dopo scuola nel cortile in cui ci ritrovavamo, per me era il cortile di una prigione. Presto iniziarono a chiedermi perché parlavo tanto in privato con Fabio, dovevo liberarmene. L’occasione si presentò quando Fabio , che era un figlio di papà e uno snob, mi riprese con delle affermazioni spiacevoli. Non esitai a spaccargli il naso. Gli diedi un pugno con tutta la forza che avevo e lo lasciai cadere sull’asfalto nero col naso sanguinante e le lacrime. La cosa piacque a tutti gli altri, tanto che iniziarono quasi a festeggiarmi, infondo era quello che volevo, così lo lasciammo lì da solo, e a terra.

Quello che non avevo capito era che prima o poi avrebbero fatto lo stesso con me.

Le cose per me andavano davvero bene solo a scuola. La maestra leggeva sempre i miei temi davanti a tutti e gli altri mi rispettavano. Era fuori che iniziavano i problemi, perché i ragazzi più grandi riuscivano sempre ad avere la meglio su di me. Io li frequentavo però anche con una certa curiosità.

Avevamo una vecchia stanza dalle pareti ingiallite in mezzo ai vicoli dove ci riunivamo tutti quanti per fumare sigarette e canne, bere bottiglie rubate dalle credenze delle nostre famiglie, parlare di femmine e farci le seghe. Ci riunivamo lì anche per giocare a carte con le Peroni. La prima bottiglia di superalcolico che portai fu una di Bayles, poi un mio amico portò una bottiglia di Chivas e me ne innamorai. Un altro posto che frequentavamo era il deposito del sale antineve del comune, per gli stessi scopi. Eri uno di noi se nei capelli avevi sempre incastrati dei pezzi grossi di sale grezzo.

Di tanto in tanto uno di quei ragazzini chiamava una ragazza più grande di noi e la portava li per spogliarsi, farsi toccare la fica e fare sesso con quelli di noi che ne avevano il coraggio. La prima volta che mi avvicinai a lei fu per caso. Vidi che tre dei miei amici la tenevano al centro della stanza a gambe aperte. Mi chiamarono e con senso si sfida e mi invitarono a scoparla. Io mi avvicinai spavaldamente come se l’avessi fatto diecimila volte e mentre andai per baciarla le sputai in bocca, non sapevo baciare e avevo paura. La scoperta di quel buco che poi avrebbe finito per inghiottirmi risale a parecchio tempo dopo. Mi arrivò una telefonata da parte di Simone che mi invitava ad andare con Felice e Mario nella casa in costruzione del nostro quartiere per una spedizione punitiva con una ragazza al centro. Non potevo dire di no perciò fui dalla combriccola in meno di dieci minuti. La prima accortezza stava nel non farci vedere mentre entravamo nel cantiere, facile da superare. La seconda accortezza stava nel gestire bene la situazione. Appena entrati dentro Simone cacciò il pacchetto di Marlboro sorridendo e un po’ di erba. La casa era una di quelle storte, alte, solo cemento armato, si respirava la polvere. In fondo a una stanza, che probabilmente sarebbe in seguito stata adibita a cesso, c’erano Felice, Mario e Serena. Simone era in atteggiamento da leader ma nemmeno lui sapeva bene a quel punto cosa fare. Dovevamo scoparcela in tre o uno alla volta e chi per primo? E poi per quanto tempo?

L’idea geniale venne a me. – Ragazzi – dissi, - mi è stato appena regalato quest’ orologio al compleanno e guardate qua ! C’ha pure il cronometro! Facciamo dieci minuti ciascuno e poi nel caso vogliamo continuare ripetiamo il giro. Facciamo a tocco per stabilire l’ordine - .

-Si ma poi dieci minuti non sono troppi?-

-Secondo me sono pochi-

- Facciamo dieci minuti e poi se vogliamo continuare c’è sempre il giro successivo, possiamo utilizzare benissimo questo stanzino, Serena rimane qui e uno alla volta entriamo- .

Serena era lì che ci guardava e non capiva, era solo incuriosita dai nostri uccelli. Si iniziò, io ero il primo a dover entrare, la cosa un po’ mi agitava. Era abbastanza buio dove si era messa, era lì con i pantaloni abbassati e la mutandina bianca in vista. Me li abbassai anch’io poi la vidi mettersi in ginocchio, almeno lei sapeva cosa fare e lo fece.

Era difficile per me trovare una ragazzina che ci stesse veramente. Mi sentivo brutto, probabilmente lo ero. Mi sentivo strano perché non avevo fortuna. Mi sentivo solo e lo ero anche. Dicevano su di me tante cose e io non dicevo niente su di loro. Era davvero difficile farmi accettare, in qualsiasi contesto sembrava che il gruppo mi vomitasse, che potesse benissimo fare a meno di me in ogni cosa. Ero un soggetto anomalo. Semplicemente mi ero reso conto di essere soltanto una inutile merda per la prima volta e non riuscivo a comunicarlo agli altri. Scrivevo su dei quaderni tutte le cose che mi passavano in mente, e cercavo di tenere la cosa nascosta a tutti.

Dopo tutto mi sorprendo sempre di come la mia vita non mi abbia insegnato niente.

Ho capito solo che ogni cosa va all'inferno, e bisogna solo capire qual è il momento giusto per mandarcela, prima che sia troppo tardi.

Riconosco anche finalmente cosa vuol dire essere anormali : pensare che tutti, indistintamente, intorno a te, siano pazzi. E pensarlo pure a ragione.

mercoledì 15 giugno 2011

Non abito più qui da dodici anni

Questa terra avida sterile
che non mi ha dato niente
Questi rimpianti di birra fredda
prelevata dal frigo
di notte.
La gente si aggrappa a piccole certezze
e non ci sono futuri possibili nella mia testa...
Perchè dovrei abitare in questa provincia del cazzo?
Non abito più qui da dodici anni.
E' come un circo,
che è bello da guardare
ma non voglio mai essere il pagliaccio in mezzo.

venerdì 10 giugno 2011

L'anima di una slot machine


La mia anima è fatta di asfalto e lampioni

e si poggia sul marciapiede

l'unico compagno fedele

che non mi rompe i coglioni.

Non sapevo perché la gente si alzava presto la mattina, non sapevo perchè si vestivano accuratamente, passeggiavano con narcisismo, poi si fermavano, si siedevano e guardavano gli altri fare la stessa cosa.

Quella era la terra del tresette e della bestemmia facile per far scivolare tutto quanto. Sarei andato in giro in pigiama o in canottiera e con gli zoccoli, sarebbe stato un modo di vestirsi più adeguato. Se non fossi stato me, l’avrei fatto. Non avrei fatto finta di essere un altro.

I più dormivano o restavano a casa a pregare che il “buon Dio” avesse pietà di loro. I loro movimenti viscidi di soppiatto, i loro sguardi furtivi da gatti selvatici che spiavano dal buco della serratura, le loro porte appannate e il più delle volte serrate, la puzza di chiesa. Non era solo uno squallido paesino di provincia, era una cattedrale ingrandita che conteneva queste figure camminanti e flagellanti concentrate nel rinnegamento di sé, nel senso di colpa e nella conseguente inquisizione.

Altri si spaccavano la schiena tutto il giorno trascinando carriole o allevavano porci, vacche, capre, spalavano la merda delle loro bestie ma di sera si trasformavano in abili ballerini di dance commerciale italiana in locali dalle lucine fucsia, rosa, blu trascinandosi addosso l’immagine dei ragazzi ricchi di città. Tra le tante vergogne quella più temuta era sembrare poveri.

Devo dire che nonostante tutto sono riuscito sempre evitarli molto bene. Io non chiedevo altro che stare solo. Il mio sogno era sempre andare a vivere un monolocale in qualche megalopoli a molte centinaia di chilometri da lì. Comunque io non avevo nulla da dirgli e viceversa. L’unica cosa che mi chiedevano era “perché non lavori? “ o “quando ti metti a lavorare”?.

“IL LAVORO…ma vai a fanculo” era la mia risposta.

Non ci avevo pensato al lavoro, non avevo tempo per pensarci. Lavoro non ce n’era, erano tutti a spasso come dei babbei senza meta, o giocavano a carte, alle slot machine o battevano i marciapiedi e comunque nessuno mi avrebbe mai preso o non sarei durato molto.

Una sera mi accorsi che avevo passato due ore a fissarne una, di quelle macchinette con i frutti che girano e che ingoiano i soldi dei pezzenti per rimpinguare le casse dello stato. Il soggetto in questione ne aveva fatto una ragione di vita. La slot machine era il suo schermo sul mondo, per un attimo mi ero calato nella parte e avevo intuito che era molto più alienante della televisione. Ogni tanto si sentiva il ticchettio di spiccioli, la gente si accalcava sempre di più attorno alla macchinetta colorata di lucine e frutti e paperelle e anatre. Sembrava fosse una gran fatica, anzi no, sembrava fosse un LAVORO. La vena sulla fronte del giocatore si ingrossava e la sua faccia da alcolizzato bieco assumeva colori rossastri quando riecco il ticchettio – tin tin tin -, altre 10 euro. Qualche brindisi di prosecco economico. Tutta quella balera aveva partorito una banconota da 50 euro, da ributtare in un'altra macchinetta di un altro bar per avere più fortuna.

Finita la baldoria non rimaneva che il fondo del bicchiere di prosecco o giocare a carte. . Restarono in pochi e andati via loro io puntualmente rimasi solo. Ero solo io ogni volta.

Il bar stava chiudendo. La vaiassa stava lavando a terra con la testa dentro al secchio, odore di varechina, i tavolini con le sedie rovesciate sopra. Aveva appena finito di contare i soldi che gli avevano portato quei quattro reietti e beoni accaniti col gioco d’azzardo. Eravamo quelli del limbo, appesi a qualcosa di inconsistente. Era una delle tante sere che rimanevo così clandestinamente tra il mocho vileda e il culo della cameriera che lavava coi suoi capelli legati. Era giovane anche se non sembrava affatto, forse per il fatto che era già sposata e con figli. Si sposavano tutte presto di modo che poi erano autorizzate a non fottere e assumevano subito quella faccia da vecchie paesanotte col crocifisso e le mura ammuffite. Io sentivo anche la puzza di vecchiaia. .

Mi ritrovai a spasso per la strada vuota e sterile del paese insieme ai miei pensieri di vita sprecata e ai cani randagi con la loro rogna, solo che io non avevo immondizia da rovistare. Tutti avevano la loro squallida villetta con un fottuto cancello e un cane che ringhiava, era il massimo dell’accoglienza. Le case erano più o meno così : un piano terra con garage ben serrato e l’abitazione al piano di sopra per distaccarsi saldamente dal terreno e da quel posto, come per far finta di non abitare vicino ad altri.

Avevo realizzato anch’io che l’unico modo era non pensarci, distaccare la mente dal corpo, far finta di essere altrove, per uscire dalla gabbia. Ovviamente una via d’uscita più comoda c’era, l’alcool. Per tutti tranne che per le donne. Loro non uscivano di sera tranne che coi loro fidanzati, non bevevano, si rifiutavano di dar via la fica come se fosse stata di legno, di ferro e si fosse consumata.

Così ai ragazzi ben pasciuti sui tavolini dei bar tra una briscola e una mariaccia , un Cristo e una Madonna, non restava che recitare sempre la solita strofa : “ meglio riempirlo di puttane ‘sto paese, perché non mettono le puttane al posto degli sbirri ! “.

I discorsi leggeri, i non discorsi, le parole finte, le frasi ad effetto, i luoghi comuni, le frasi scontate non alleggeriscono mai il peso della vita ma finiscono per diventare dei mattoni, dei macigni che ti pesano addosso, diventano una nebbia disgustosa, una canicola piena di insetti.

Infondo la vera stranezza era che nonostante nessuno lavorasse non si stava poi così male. La maggiorparte erano figli di emigrati in Svizzera che avevano qualcosa da parte. Qualcuno lo vedevi pure tornare con la Ferrari noleggiata, magliette sfavillanti e sguardo da idiota a fare il super-man della situazione, “quello che ce l’ha fatta”. Mica come me o come loro.

Toccata e fuga in questo squallido posto per aumentare vorticosamente la paranoia di noi poveri reietti e debosciati di periferia. Arrivavano, mangiavano alle sagre, cacavano sopra il paese e poi se ne andavano.

Peggio ancora venivano per assistere a qualche matrimonio, piccole fiction borghesi, sfoghi di boria, accrescimento della mia paranoia. I piccoli film del microcosmo. Le cerimonie. Scriveva Krishnamurti : “Lascia che essi facciano come vogliono; soltanto non devono ostacolare te che conosci la verita'.”

Si proponevano visioni alternative salvo poi finire sempre in un bar. Pensavano di poter vivere lì come fossero a New York. Erano resi inconsapevoli dalla noia e della noia. Vivere era inutile. Mi piacque questa definizione da vocabolario, perché calzava a pennello : "Disgusto che viene dalla ripetizione d'impressioni non piacevoli o dalla durata di uno stato increscevolmente uniforme". Pensavo alla Grecia antica dove questo concetto non esisteva e non avevano infatti nemmeno un parola riconducibile ad esso. Ero nato in un buio e ripugnante spazio – tempo.

Le parole sono inutili, quel posto è e resterà una palude fetida e infetta. Puzza di malaria, di scarichi industriali sotto le mie palle. Sono andati tutti via mandando tutto in malora. Anche oggi insetti, vermi, muffa escono dalle pareti della mia stanza. E’ come se aspettassi che venisse qualcuno o qualcosa, qualche cataclisma a ripulire tutto. Aprendo la finestrella che sbuca come un occhio dal muro mi affaccio a questo piccolo regno fatto di pioggia.

E una cosa naturale è fumare, pensare a cosa resterà di me da morto, in quale fosso dovranno smaltirmi nell’emergenza rifiuti. Quando qui non resta che una scatola di cianfrusaglie da mille lire impolverate o arrugginite per evocare pallidissimi ricordi e solo lo scricchiolio della sedie e del tabacco nella cartina si sente, il resto rimane muto come un vecchio film. Questa è la fine che farò: un frigo vuoto e mezzo pieno di robaccia scaduta da consumare guardando cianotico il cortile. Come da bambino mi rintanavo in cantina tra polvere e ferraglie spiando dalla finestra come da un oblò. Così si chiuderà il cerchio.

Solo io di nuovo e un cesso, una brandina, una scrivania e un lampadario per ammirare qualcosa.