mercoledì 15 giugno 2011

Non abito più qui da dodici anni

Questa terra avida sterile
che non mi ha dato niente
Questi rimpianti di birra fredda
prelevata dal frigo
di notte.
La gente si aggrappa a piccole certezze
e non ci sono futuri possibili nella mia testa...
Perchè dovrei abitare in questa provincia del cazzo?
Non abito più qui da dodici anni.
E' come un circo,
che è bello da guardare
ma non voglio mai essere il pagliaccio in mezzo.

venerdì 10 giugno 2011

L'anima di una slot machine


La mia anima è fatta di asfalto e lampioni

e si poggia sul marciapiede

l'unico compagno fedele

che non mi rompe i coglioni.

Non sapevo perché la gente si alzava presto la mattina, non sapevo perchè si vestivano accuratamente, passeggiavano con narcisismo, poi si fermavano, si siedevano e guardavano gli altri fare la stessa cosa.

Quella era la terra del tresette e della bestemmia facile per far scivolare tutto quanto. Sarei andato in giro in pigiama o in canottiera e con gli zoccoli, sarebbe stato un modo di vestirsi più adeguato. Se non fossi stato me, l’avrei fatto. Non avrei fatto finta di essere un altro.

I più dormivano o restavano a casa a pregare che il “buon Dio” avesse pietà di loro. I loro movimenti viscidi di soppiatto, i loro sguardi furtivi da gatti selvatici che spiavano dal buco della serratura, le loro porte appannate e il più delle volte serrate, la puzza di chiesa. Non era solo uno squallido paesino di provincia, era una cattedrale ingrandita che conteneva queste figure camminanti e flagellanti concentrate nel rinnegamento di sé, nel senso di colpa e nella conseguente inquisizione.

Altri si spaccavano la schiena tutto il giorno trascinando carriole o allevavano porci, vacche, capre, spalavano la merda delle loro bestie ma di sera si trasformavano in abili ballerini di dance commerciale italiana in locali dalle lucine fucsia, rosa, blu trascinandosi addosso l’immagine dei ragazzi ricchi di città. Tra le tante vergogne quella più temuta era sembrare poveri.

Devo dire che nonostante tutto sono riuscito sempre evitarli molto bene. Io non chiedevo altro che stare solo. Il mio sogno era sempre andare a vivere un monolocale in qualche megalopoli a molte centinaia di chilometri da lì. Comunque io non avevo nulla da dirgli e viceversa. L’unica cosa che mi chiedevano era “perché non lavori? “ o “quando ti metti a lavorare”?.

“IL LAVORO…ma vai a fanculo” era la mia risposta.

Non ci avevo pensato al lavoro, non avevo tempo per pensarci. Lavoro non ce n’era, erano tutti a spasso come dei babbei senza meta, o giocavano a carte, alle slot machine o battevano i marciapiedi e comunque nessuno mi avrebbe mai preso o non sarei durato molto.

Una sera mi accorsi che avevo passato due ore a fissarne una, di quelle macchinette con i frutti che girano e che ingoiano i soldi dei pezzenti per rimpinguare le casse dello stato. Il soggetto in questione ne aveva fatto una ragione di vita. La slot machine era il suo schermo sul mondo, per un attimo mi ero calato nella parte e avevo intuito che era molto più alienante della televisione. Ogni tanto si sentiva il ticchettio di spiccioli, la gente si accalcava sempre di più attorno alla macchinetta colorata di lucine e frutti e paperelle e anatre. Sembrava fosse una gran fatica, anzi no, sembrava fosse un LAVORO. La vena sulla fronte del giocatore si ingrossava e la sua faccia da alcolizzato bieco assumeva colori rossastri quando riecco il ticchettio – tin tin tin -, altre 10 euro. Qualche brindisi di prosecco economico. Tutta quella balera aveva partorito una banconota da 50 euro, da ributtare in un'altra macchinetta di un altro bar per avere più fortuna.

Finita la baldoria non rimaneva che il fondo del bicchiere di prosecco o giocare a carte. . Restarono in pochi e andati via loro io puntualmente rimasi solo. Ero solo io ogni volta.

Il bar stava chiudendo. La vaiassa stava lavando a terra con la testa dentro al secchio, odore di varechina, i tavolini con le sedie rovesciate sopra. Aveva appena finito di contare i soldi che gli avevano portato quei quattro reietti e beoni accaniti col gioco d’azzardo. Eravamo quelli del limbo, appesi a qualcosa di inconsistente. Era una delle tante sere che rimanevo così clandestinamente tra il mocho vileda e il culo della cameriera che lavava coi suoi capelli legati. Era giovane anche se non sembrava affatto, forse per il fatto che era già sposata e con figli. Si sposavano tutte presto di modo che poi erano autorizzate a non fottere e assumevano subito quella faccia da vecchie paesanotte col crocifisso e le mura ammuffite. Io sentivo anche la puzza di vecchiaia. .

Mi ritrovai a spasso per la strada vuota e sterile del paese insieme ai miei pensieri di vita sprecata e ai cani randagi con la loro rogna, solo che io non avevo immondizia da rovistare. Tutti avevano la loro squallida villetta con un fottuto cancello e un cane che ringhiava, era il massimo dell’accoglienza. Le case erano più o meno così : un piano terra con garage ben serrato e l’abitazione al piano di sopra per distaccarsi saldamente dal terreno e da quel posto, come per far finta di non abitare vicino ad altri.

Avevo realizzato anch’io che l’unico modo era non pensarci, distaccare la mente dal corpo, far finta di essere altrove, per uscire dalla gabbia. Ovviamente una via d’uscita più comoda c’era, l’alcool. Per tutti tranne che per le donne. Loro non uscivano di sera tranne che coi loro fidanzati, non bevevano, si rifiutavano di dar via la fica come se fosse stata di legno, di ferro e si fosse consumata.

Così ai ragazzi ben pasciuti sui tavolini dei bar tra una briscola e una mariaccia , un Cristo e una Madonna, non restava che recitare sempre la solita strofa : “ meglio riempirlo di puttane ‘sto paese, perché non mettono le puttane al posto degli sbirri ! “.

I discorsi leggeri, i non discorsi, le parole finte, le frasi ad effetto, i luoghi comuni, le frasi scontate non alleggeriscono mai il peso della vita ma finiscono per diventare dei mattoni, dei macigni che ti pesano addosso, diventano una nebbia disgustosa, una canicola piena di insetti.

Infondo la vera stranezza era che nonostante nessuno lavorasse non si stava poi così male. La maggiorparte erano figli di emigrati in Svizzera che avevano qualcosa da parte. Qualcuno lo vedevi pure tornare con la Ferrari noleggiata, magliette sfavillanti e sguardo da idiota a fare il super-man della situazione, “quello che ce l’ha fatta”. Mica come me o come loro.

Toccata e fuga in questo squallido posto per aumentare vorticosamente la paranoia di noi poveri reietti e debosciati di periferia. Arrivavano, mangiavano alle sagre, cacavano sopra il paese e poi se ne andavano.

Peggio ancora venivano per assistere a qualche matrimonio, piccole fiction borghesi, sfoghi di boria, accrescimento della mia paranoia. I piccoli film del microcosmo. Le cerimonie. Scriveva Krishnamurti : “Lascia che essi facciano come vogliono; soltanto non devono ostacolare te che conosci la verita'.”

Si proponevano visioni alternative salvo poi finire sempre in un bar. Pensavano di poter vivere lì come fossero a New York. Erano resi inconsapevoli dalla noia e della noia. Vivere era inutile. Mi piacque questa definizione da vocabolario, perché calzava a pennello : "Disgusto che viene dalla ripetizione d'impressioni non piacevoli o dalla durata di uno stato increscevolmente uniforme". Pensavo alla Grecia antica dove questo concetto non esisteva e non avevano infatti nemmeno un parola riconducibile ad esso. Ero nato in un buio e ripugnante spazio – tempo.

Le parole sono inutili, quel posto è e resterà una palude fetida e infetta. Puzza di malaria, di scarichi industriali sotto le mie palle. Sono andati tutti via mandando tutto in malora. Anche oggi insetti, vermi, muffa escono dalle pareti della mia stanza. E’ come se aspettassi che venisse qualcuno o qualcosa, qualche cataclisma a ripulire tutto. Aprendo la finestrella che sbuca come un occhio dal muro mi affaccio a questo piccolo regno fatto di pioggia.

E una cosa naturale è fumare, pensare a cosa resterà di me da morto, in quale fosso dovranno smaltirmi nell’emergenza rifiuti. Quando qui non resta che una scatola di cianfrusaglie da mille lire impolverate o arrugginite per evocare pallidissimi ricordi e solo lo scricchiolio della sedie e del tabacco nella cartina si sente, il resto rimane muto come un vecchio film. Questa è la fine che farò: un frigo vuoto e mezzo pieno di robaccia scaduta da consumare guardando cianotico il cortile. Come da bambino mi rintanavo in cantina tra polvere e ferraglie spiando dalla finestra come da un oblò. Così si chiuderà il cerchio.

Solo io di nuovo e un cesso, una brandina, una scrivania e un lampadario per ammirare qualcosa.

La risacca

Come l'onda s'infrange

urta lo scoglio

e torna a mare

Così la birra

in circo nel sangue

risale e mi consuma

lievitando nel mio corpo

lasciando solo schiuma

Di fermarsi non c'è modo

appena cade si ripiglia

muore solo all'impazzare

della compagna

che alza fiera la bottiglia !