venerdì 25 settembre 2009

Dalla mia stanza di merda

“…mentre parecchi facevano l’università e alcuni si impiccavano in garage lasciando come ultime volontà le poesie di Vian…”
Vasco Brondi – Le Luci Della Centrale Elettrica



Una notte stavo aggiustando una tapparella ad una ragazza. Gliela smontai, gliela rimontai e non funzionava. Decisi di rinunciare e la convinsi a bere qualcosa con me. Dentro il primo bar. Quattro o cinque consumazioni, senza pagare. Quella sera ci sentivamo forti. Tornai a casa in macchina, nella panda col sediolino sfondato, sorseggiando del whisky scozzese. Appena entrai nel letto mi addormentai.
Il pensiero che lei era una gran fica non mi teneva sveglio.
Alle sei e mezza di mattina mi svegliai quando sentii una voce fastidiosissima che diceva:
Tre e sessanta -
Aprii gli occhi e vidi il padrone di casa. Senza pensarci nemmeno gli dissi :
Francè, che cazzo vuoi?? L’affitto?? – Temevo anche che l’avesse raddoppiato.
No, no – rispose – tranquillo –
Sto prendendo le misure della stanza perché tra un paio di mesi ti sbatto fuori! –
Francesco era esaurito, e cercava di trasmettermi la sua ansia. Così spesso quando tornavo a casa nelle ore piccole, facevo scoppiare dei petardi sotto la sua finestra, svegliando lui e suo figlio appena nato, facendolo incazzare come una bestia. La cosa mi divertiva.
Quella mattina invece, aveva fatto incazzare me, così mi alzai e andai a fare il caffè noncurante di lui e della sua fottutissima catapecchia. Era un caffè schifoso che ti costringeva a cacare, ma bevvi tutta la macchinetta lo stesso.
Più tardi, dopo varie sigarette e varia merda, decisi di andare all’università . Come sempre mi aspettavano le code, il trambusto e le immagini di ragazzine puttane che urlavano al telefonino –Mamma, mamma, ho preso trenta!-. Sguazzavo dentro l’università cercando un cesso, poi sarei dovuto andare a seguire un corso.
Il mio status era quello di studente universitario, oppure di nomade, o di extracomunitario. In realtà il mio vero status era quello di alcolizzato-nullafacente-mantenuto. Una merdina in un mare di caccole più grandi.
Ma infondo ne ero contento, volevo mantenere la mia reputazione di bevitore scansafatiche derelitto. Era sempre meglio di fare un lavoro di merda e andare in chiesa come gli altri stronzi. Era meglio fare il nomade, con la differenza che io avevo bisogno semplicemente di una stanzetta lurida e fetida dove cacare e vomitare.
Non ho mai sopportato quelli che sostenevano che la mia vita era di qualcun altro e pertanto avevo degli obblighi morali su come condurla e su come spenderla.
La mia vita era soltanto la mia, ed era l’unica cosa che si poteva realmente possedere al mondo. A volte però sarebbe stato bello poter dire di non essere proprietari della propria vita e incolpare qualcun altro perché faceva schifo. Sarebbe stato consolatorio(?).
Il corso universitario che andavo a seguire era condotto da un professore molto anziano e moribondo che puzzava di muffa e di morte, e parlava faticosamente e lentamente di Pascoli, insistendo morbosamente sul fanciullino. Forse anche lui si chiedeva il senso di tutto ciò.
Voleva morire, ci spiegava che il consiglio didattico l’aveva trattenuto con la forza a mantenere la cattedra e che a lui ormai non fregava più un cazzo, né di noi, né della sua vita ormai agli sgoccioli, né tantomeno della fottuta letteratura.
Restavo lì come una merdina a seguire il corso. Ero nell’esercito di coloro che cercavano il dannato pezzo di carta per andare a guadagnare uno stipendio. Mi candidavo ad entrare nell’esercito di coloro che cercano un lavoro, coloro che ormai sono considerati una vera e propria minaccia per la società. Sapevo bene che quando si và chiedere un posto di lavoro, vieni guardato come se volessi rapinare una banca, come se volessi ammazzare qualcuno e devi condurre la lotta con tutte le tue forze per entrare in quel mondo meschino, fatto di stronzi.
A volte nell’università mi sento accerchiato. Da un lato dell’aula i cattolici, talvolta ciellini, perbenisti e rigorosi nella morale, che sono scandalizzati dal fatto che vesti disordinato e scopi una sera si e una sera no. Li vedi nelle prime file composti ed educati, e attaccano manifesti per aderire alle loro fottute associazioni. Soffrono dei sensi di colpa inculcatigli dai genitori per il fatto di non essere dei veri studenti modello. Anche il 28 a volte, può essere un’umiliazione e una grave frustrazione. Vicino ai loro banchi si confondono i fedelissimi dell’istituzione, i cittadini modello, che sognano di diventare marescialli o carabinieri. Niente alcool e niente fumo, per carità, e mai nella loro vita che abbiano fatto un divieto d’accesso. Tolleranza zero verso gli extracomunitari, i froci, gli zingari, gli stranieri e quelli come me, ovviamente.
Dall’altro lato i filosofi comunisti (finti), che vogliono farti anch’essi la predica. Parlano di piccola e media borghesia, lotta di classe, proletariato. Termini che non significano un cazzo. Il mondo di distingue in due fasce: chi c’ha i soldi e chi no. Vanno in giro per l’università con la loro flemma e il loro stordimento cronico fumandosi le canne, e puzzano di sudore rivoluzionario. Ovviamente non leggono libri, non studiano e non sanno un cazzo. Molto spesso fanno parte della fascia di popolazione del mondo che i soldi ce li ha, o sono dei poveri cristi normalissimi e repressi.
Al centro della scena invece, ci sono le ragazze e i ragazzi immagine. Disperati inseguitori dei modelli proposti dalla tv. Appoggiati al muretto col cellulare ultimo modello per farsi notare e occhiali da sole all’ultimo grido, mutanda firmata scoperta e sopracciglia tirate. Le ragazze perse a farsi fotografie che poi metteranno su myspace o su facebook, lanciando bacetti, occhiolini e masticando gomme, vestite da troiette da bijotteria.
Fanculo le chiese, i partiti e le discoteche. Infondo sono la stessa cosa. Per quanto mi riguarda non andrò a pregare, non andrò a votare e non andrò a ballare. A volte davvero resta da chiedersi cosa cazzo viviamo a fare in questi anni.
Il minimo comune denominatore della mia generazione è la droga e il sert. La droga è l’attuazione del comunismo. E’ la vera rivoluzione democratica. Tutti si drogano, dal figlio del ricco, al figlio del pezzente, al figlio di puttana.
Una generazione che non sa uccidere i padri, farsi spazio e rifondare. Ognuno rassegnato nel suo torpore. Non andremo oltre un’ apparizione al bar.
Sono questi i nostri i tempi. Questa è la nostra epoca e per quanto schifo faccia, è la nostra. Niente di più e niente di meno.
Probabilmente racconteremo di aver vissuto senza nemmeno accorgercene, sotto anestesia.

lunedì 14 settembre 2009

Nel deserto

“In viaggio, tra paesi senza senso, tra luoghi anonimi, paesaggi desolati e sconfortanti. Più vedo posti diversi e gente diversa, più credo che non ci sia nulla da fare e nulla da vedere, ma il viaggio è obbligato. Il buio, venendo, mi fa un piacere. Tanto il sole non può sorgere”.
“Wherever you run, wherever you hide, lullabies to paralyze…”
John Homme
Presi la macchina alle 8 e un quarto di sera mentre il sole stava morendo e l’oscurità stava venendo, come un velo per nascondere le montagne. Sulla strada l’unica cosa presente era la mia macchina e il mio stereo sintonizzato su una frequenza che sparava a palla canzoni per i sordi, che nessuno avrebbe mai udito.
Serpenti che si andavano a rintanare nei loro buchi mi tagliavano la strada, il sole esplodeva sulle montagne urlando.
180 km all’ora, il pedale dell’acceleratore al massimo, per andare lontano da quel postaccio da cui ero partito. Mezzo pacchetto di sigarette, mezza birra calda sul sedile, e varie bottigline di whisky scozzese invecchiato.
Tra il momento in cui ti succede qualcosa e il momento in cui riprendi piena coscienza c’è un tempo morto, che può durare da cinque minuti a tutta la vita. Io ero in quel tempo morto, in quella zona franca. In pratica o ero morto o ero resuscitato, ma agivo guidato da qualcosa che non saprei dirvi. Più il sole spariva, più le montagne diventavano occulte e impenetrabili e più mi addentravo, e mi allontanavo dai posti che segnavano l’ora esatta.
Da qualche parte doveva esserci nascosto un diavolo che rideva e saltava di nascosto. Nella mia testa, di sicuro, troppe troie che bussavano alla porta.
Era la morte del tempo, era anche la mia morte cerebrale e stavo bene. Avevo uno strano senso di agitazione in petto, una palpitazione forte. La notte avrebbe portato l’oro.
Ormai lo stato di coscienza si allontanava sempre di più e prevaleva il buio. Ne ero soddisfatto, la cosa mi portava sollievo. Il buio nascondeva tutte le merde di uomini che conoscevo e che pullulavano sulla faccia della terra, li oscurava e li faceva rintanare nelle loro tane con la loro avidità. Continuavo a prendere le bottigline di whisky una dopo l’altra e le svuotavo in un sorso.
La notte quella sera calò come una ghigliottina, mentre gli animali erano ben nascosti nelle loro tane.
Parole dette, non dette. Le frasi che pensavo non erano comandate. Entravano sole e venivano da qualche parte delle montagne.
La macchina si fermò dopo 80 km. Era finita la benzina. Diedi una testata sul volante e bestemmiai. Scesi dalla macchina e iniziai a spingerla. La notte durava tanto, il sole non avrebbe più voluto sorgere. Spinsi la macchina per ore, fino ad un vecchio distributore di benzina dismesso. Sembrava un miraggio, in mezzo a quel deserto. Ero distrutto, mi mancavano tutti i tipi di forze. Mi fermai sulla piazzola e notai un vecchio bar chiuso andato a male. Le pareti incrostate e sporcate con bombolette a spray, e vecchi cartoni e pezzi di ferro arrugginiti sparsi sull’entrata. Non capivo se c’era qualcuno o se non c’era nessuno.
Voltai di nuovo lo sguardo e notai che da un’altra entrata il bar era aperto e dentro c’era il gestore e un contadino del posto che beveva.
Entrai nel bar, comprai le sigarette. Era impossibile che quel bar fosse aperto, non aveva senso di esistere. Forse avevo fatto un incidente ed ero morto e quello era l’inferno. Il barista puliva il bancone e mi guardava in faccia, senza nessuna espressione. Era un bar nel deserto o forse non lo era, forse era la mia immaginazione.
Ripercorrevo le tappe che avevo fatto del mio viaggio ma qualcosa mi sfuggiva. Non sapevo come ero arrivato fin lì e perché, e non mi interessava più.
Nel silenzio totale mi feci dare una birra, l’etichetta ingiallita, la birra mezza calda. Lasciai i soldi sul bancone, mentre il barista continuava a pulire rassegnato ai suoi acciacchi e come se sapesse tutto di me. Mi sentii toccare dietro le spalle. Mi voltai e vidi una donna, anzi, una troia. Vestita di nero, con calze a rete sfilacciate, sporcata in viso da un trucco scuro e pesante. Doveva essere finita lì per sbaglio.
Mi chiese da dove venivo per il mio strano accento, ed io risposi:
-Vengo… da un paese senza senso… non ha nessuna importanza…-
-Dimmi la verità…stai scappando?-
-Se, se…. –
- Vengo da un paese di stronzi… ma la differenza è che loro sono stronzi, e io no – .
Rise, accennò a un sorriso e mi disse:
- Seguimi fuori, per te è gratis! – .
La tipa evidentemente, stando sempre in quel mortorio si sarebbe scopata anche un palo della luce. Uscii fuori, la porta scricchiolava. La troia procedeva verso il deserto nell’oscurità e muoveva il dito per farsi seguire. Si allontanava sempre di più, scivolava via nell’ombra. Avevo le gambe pesanti, non riuscivo a camminare più veloce, mi appoggiai ad un piccolo arbusto secco e vomitai. In fondo in fondo notai il cielo farsi rosso cupo, una strana luce. La donna procedeva verso dove iniziavano rovi di spine. Finii la birra e la gettai a terra. Sbucò fuori all’improvviso e puntò alle mie parti basse. Me lo tirò fuori dai pantaloni e iniziò a succhiare. Me lo divorava quasi, sentivo i suoi denti sul mio cazzo, ma resistetti, fino a quando il mio arnese non iniziò a sanguinare. La tirai per i capelli e le urlai – Ma sei impazzita??? -
Volevo soltanto salvare quel che restava di me e dalla mia anima.
La buttai a terra, le aprii le gambe, la girai e le salii sopra. Glielo piantai dritto in mezzo alle natiche, con un leggero sdegno. Mentre la penetravo urlava e ansimava, si dimenava, si muoveva come un serpente e io mi sentivo altrettanto viscido. Schizzava sangue dall’uccello ma non importava. Andò a mischiarsi presto con lo sperma, che gli buttai in faccia. Quando finii, lei si alzò, e col vestito sporco di polvere se ne andò da sola.
Mi avviai di nuovo verso il bar, ci voleva un altro drink, ma fui attirato dalla vista di alcuni lumini rossi in lontananza. Avvicinandomi capii cos’era. Un piccolo fottuto cimitero, con quattro lapidi.
Decisi di arrivare lì, quando mi sentii mordere da qualcosa alla gamba, forse un serpente. Inciampai su una lapide e caddi a terra svenuto. Quando rinvenni, bestemmiai per non essere morto. Rimasi lì seduto, mi sentivo malissimo, non riuscivo a camminare, ero sudato e tremavo. Vicino c’era una casina di legno con la luce accesa. Dopo un’eternità di tempo vi sbucò un uomo, con fare lento e pesante, col fucile in spalla, un cacciatore o qualcos’altro. Avrei quasi voluto chiedergli aiuto però per prudenza mi nascosi dietro la tomba. L’uomo prese il suo furgone e partì nel buio. Mi misi a correre lontano da quel dannato posto e mi addentrai nel cimitero. Sentii i passi di qualcuno, e la voce di qualcuno che salmodiava. Mi nascosi dietro a un altare.
Pensavo a cosa fosse rimasto di me e del mio cervello. Sbirciavo da dietro l’altare, ma le immagini erano offuscate dal dolore. Vivevo stati di agitazione. Vidi un prete che procedeva all’interno del cimitero con un grosso crocifisso in mano. Veniva verso di me. Si avvicinò. Era da sempre che odiavo i preti. Si avvicinava sempre di più e continuava a salmodiare. Mi prese per mano.
Mi condusse con sé. Non mi curavo né di me stesso, né della mia vita, né tantomeno del prete, ma lo seguivo. Ero perso.
Mi condusse verso una fossa, mi invitò ad entrarci. Io diedi un’occhiata dentro, c’era una bara. Mi invitò ad accomodarmi. Vi entrai come per trovarvi riposo. Lui la chiuse di scatto sopra di me e iniziò ad inchiodarla col martello. Continuava ossessivamente a salmodiare. Poi sentii la terra ricoprirmi e la mia carne andare in cancrena. Caddi in un sonno profondo.
Passò forse un secolo, o due. Sulla superficie della terra ballavano streghe, preti, lupi, serpenti e nel sottosuolo vivevano i morti.
Riaprendo gli occhi mi trovai nel distributore di benzina abbandonato, non c’era nessuno, il bar era chiuso, tutto era morto. Non c’era benzina lì da almeno vent’anni, ero rimasto a terra nel deserto. Sulla bocca del serbatoio si era creata una piccola ragnatela. Avevo ancora il sudore freddo sulla fronte ma non ricordavo niente. Doveva essere stato il veleno del serpente a farmi fare quel bruttissimo trip.
La strada era del tutto abbandonata, ma non mi rimaneva che aspettare e sperare che passasse qualcuno. Avevo ancora qualche sigaretta, mi misi a terra, incrociai le gambe e fumai. Forse infondo ero contento di essere lì e di essere più morto che vivo.
Ero lì come un animale che andava a trovarsi un luogo per morire.
Dopo alcune ore vidi dei fari in lontananza, era un camion. Mi alzai di scatto e alzai il braccio per farlo fermare. Il camionista fece fermare il camion facendo fischiare i freni. A bordo c’era un tipo grasso e unto, con la barba sfatta, che fumava il sigaro, mi invitò a salire. Gli dissi che dovevo arrivare nella città più vicina per fare una telefonata e lui rise. Salii a bordo. Partì senza dire parola e senza troppi fronzoli. L’importante per me era aver trovato un passaggio, fosse stato anche un pazzoide.
Proseguiva sulla strada ad alta velocità mentre alla radio passavano musica folk con organetto. Buio pesto fuori, solo la radio ti faceva capire che eri comunque vicino, non so quanto, a qualche centro abitato, o almeno a qualche fottuta antenna! Pensavo a quello che mi era successo. Cos’era avvenuto prima di partire non lo sapevo più e non aveva più importanza. Il motivo per cui ero partito era diventato una cosa irrilevante. Il fatto era che ormai ero partito ed ero dentro al gioco. Non avevo preso droghe. Si, certo, avevo bevuto tanto, ma ero rimasto lucido. . Semplicemente chiusi gli occhi, senza sapere dov’ero, con chi ero e perché, e mi addormentai. Ero stanco e non mi poteva succedere nient’altro, non avevo l’energia nemmeno per pensarci.
Mi svegliai quando il camionista prese un burrone che mi svegliò di botto, fece 200 metri su una via sterrata e si fermò sotto un dirupo. Con la fortuna che avevo non poteva che essere un maniaco. Lo capii subito. Era il mio sesto senso acquisito per le disgrazie.
- Ragazzo esci fuori! – urlò.
Saltò fuori da un baldacchino sul retro un ragazzo imbavagliato. Un ragazzo giovanissimo e pieno di lividi che chissà dove cazzo aveva trovato. Probabilmente lo stronzo rimorchiava e si inculava i passanti, pensai. Doveva essere un camionista pazzoide che si sarebbe inculato anche una vecchia lavatrice arrugginita.
- Ecco, ti ho trovato un amichetto! –
- Siamo di nuovo a cavallo – pensai.
Raccolsi tutta la mia rabbia e tutta la mia energia e tutto lo sdegno verso quel cazzo di mondo che non si decideva a filare per il verso giusto senza un intoppo e tentai di dargli un pugno in faccia. Ero talmente lento e stanco che mi bloccò. Tirò fuori una pistola e mi colpi sulla in testa. Restai quasi svenuto sul sedile.
– Stronzo che volevi fare? -. Disse.
– Resta fermo e non farmi incazzare! –
Si sistemò la pistola in uno stivale, saltò dietro sul baldacchino, prese il ragazzo e iniziò a stuprarlo colpendolo in faccia. Era troppo anche per uno che non se ne sbatte un cazzo di nessuno come me. Gli spaccai la birra in testa e gli tolsi la pistola dallo stivale. Partì subito un colpo. Lo presi in faccia per caso facendogli schizzare il cervello sul ragazzo. Presi il suo corpo pesante e lo scaraventai giù dal camion.
-Ora basta… – dissi. – Ragazzo chiunque tu sia, scendi da questo cazzo di camion e vattene!- .
Mi implorò di portarlo in città.
- Scendi da questo cazzo di camion!!! -
Visto che non voleva scendere misi in moto il camion, partii e lo scaraventai giù con la forza, sull’asfalto freddo.
Mi misi in marcia e mi ricomposi. Presi una birra nel piccolo frigo del camion e iniziai a bere. Sintonizzai la radio su 89.99, canzoni per i morti.
Arrivai in città che il sole alla fine aveva deciso di sorgere,e forse avrebbe illuminato ancora di più tutto la merda che c’era nel mondo.
Sangue e sperma. E maniaci malati di AIDS.
La notte, infondo, non era stata da buttare.

domenica 6 settembre 2009

Una questione di qualità

Una questione di qualità

-Mi sento triste, e a volte, mi manca addirittura la sensazione di sentirmi triste-
-Cosa ti succede??-
-Niente, è che sono un fallimento totale!-
-Non posso cambiare nulla, tutto và per il suo verso, è tutto inutile. -
Un mio amico una volta mi disse, giocando a carte, che quando si sta così si può giocare con un solo palo, con le spade. Ma perché dovrei combattere?
Sai qual'è il fatto che mi rendo contro che da ora in poi non imparerò più niente. Ora è tardi. Ormai posso solo vedere cosa ho seminato.

Siamo sul ring, attorno alla platea…al settimo round Luigi Capone và al tappeto. K.O. Fischi dalla tribuna, acclamano il vincitore, e la linea a chi di dovere per i commenti sul match.
Negli spogliatoi si è zittito il coro, non c’è più nessuno. Non è rimasto nessuno. Ho sferrato tutti i cazzotti che avevo a disposizione fino a che non mi sono mancate le forze.
E’ da qui che inizia la lotta. La lotta contro me stesso. Contro la mia solitudine. Contro il mio passato, dolce e amaro e sempre rimpianto.
Dover andare avanti sempre e comunque, tenendo alzata la guardia, schivando gli altri colpi, ancora, perché la guerra non finisce mai. Nonostante tutto. Nonostante non bisognerebbe sopravvivere a certi incontri.

Quando sei da solo in uno spogliatoio e tutti fanno il tifo per il tuo avversario vincitore, non pensi più a niente che a te e a fare male a qualcun altro. Ecco, che qui ritorna Jake La Motta, il più grande pugile di sempre. Jake raccontava : "eravamo talmente poveri che mio padre a Natale usciva fuori, sparava due colpi di pistola e ci diceva che Babbo Natale si era suicidato".
Ecco dov’è che si vedono i tuoi cromosomi, dove si vede chi sei. Perché assolutamente non c’è più un cazzo da vedere, al di fuori della merda. Niente può esserti utile al di fuori di stesso. Anche sei hai preso troppe botte, e hai perso. Anche Jake, dopo la carriera da pugile continuò a sferrare cazzotti in un locale, facendo l’artista, “perché oltre al pugilato sono artista raffinato!”.
I pensieri sono come vortici pericolosi, ti addentri nella giungla. Ti versi da bere nel cuore.
Il confine per impazzire è lì dove non riesci più ad accettare la realtà, e la trascendi, vai oltre. Io sono andato oltre più volte. Ho visto. E’ molto facile. Mi è capitato di impazzire chiuso nella mia stanza, nella mia scuola, nel mio quartiere, nei supermercati, nelle città e nei bar.
Un mondo fatto di troie, di merci, di papponi, di tossici, di gente di merda, senza scrupoli. Vinci solo se sei alla moda. Vinci solo se produci, se consumi. Se sei figlio di qualcuno. Vinci se vai in palestra, se fai sport. Vinci se sei un brillante studente universitario. E’ una questione di qualità.
Mi è capitato di impazzire in fila agli sportelli dell’università ogni giorno. Mi è capitato di impazzire quando gli esaminanti mi ridevano in faccia. Quando ero meno di niente tra le matricole. Quando mi svegliavo la mattina e avevo soltanto voglia di vomitare, non di alzarmi. Quando ti rendi conto che se non sei produttivo tutti ti si riversano contro. Quando comprendi che sei costretto a lottare ma non ci riesci. Mi assalivano. Mi pestavano.
Intorno a me chi scopava, chi se lo prendeva in culo, chi studiava, chi rubava, chi si drogava, chi diventava lentamente un coglione, chi si disperava nella sua stanza nella sua depressione. Chi ballava in discoteca, chi frequentava quei posti dove devi essere per forza allegro, e chi andava in chiesa, non faceva differenza. Tutti nella stessa gabbia, a dimenarsi come polli, a vendere ognuno i propri culi al miglior offerente, una questione di merce, di qualità.
Poi mi ritrovai senza soldi. Sciupati tutti in un night. Stesso gioco, stesse regole. Si beve e si dimentica. L’amore ti ha abbandonato. Lei è fidanzata con un altro. Ritorna nei tuoi pensieri come una spina, ritornano le stesse strade a inseguirti, gli stessi posti, gli stessi colori degli alberi, la stessa aria, la stessa macchina, le stesse sigarette, ma lei non c’è. L’amore non gira dalla tua parte, gira, gira, e ti riporta dietro un bancone, tra le solite facce tristi. Hai troppe troie nella tua testa, troppe troie nel tuo letto, troppe troie alla tua porta. Tutti intorno si sentono soli come te.
Rispolveri vecchie fotografie al rintocco degli orologi, sbucano vecchi ricordi, che divengono tristi. Momenti perduti.
Sei al terzo campari-gin, ti commiseri fin troppo, ma, alla fine, ti rendi conto della cosa più importante. Che sei ancora vivo. E solo allora pensi di farla finita sul serio. Pensi a farti fuori, ti guardi attorno, tra le facce stanche e rassegnate dei clienti di quella bettola.
Torna un’altra foto, come un flashback,poi torni sul bancone, e sull’asfalto bagnato, e sul nulla che hai creato.
Più l’alcool sale e più ti sembra di averla accanto. Sei come un febbricitante preso da delirio, colpito da una strana febbre. E’ che da solo l’amore non basta. Non hai più sette anni.
Potrei anche morire ora, sono riuscito ad incasinarmi la vita sempre per far soccombere la noia. Ascolto le mie palpitazioni, bado a come mi sento.
Ansiolitici, anestetici, antibiotici, antistaminici, antidepressivi. Anti. Dover distruggere qualcosa per restare a galla, per non annegare. E’ meglio un medicinale che una storia infernale. Giramenti di testa, sensazione di vuoto, stati di agitazione, crisi di panico, depressione, ossessione, non riuscire a respirare. Paranoia.
Il posto in cui andai a rifugiarmi un giorno, fu un treno notturno. Ovvero in nessuno luogo preciso. Un intercity. Un serpente nero che striscia sulla faccia della terra e buca la notte, penetrando negli antri scuri del pianeta. Restai a guardare con calma dietro i finestrini, mentre fuori il mondo fuggiva via. Ascoltavo il rumore delle ferraglie sui binari, parallelo al procedere dei miei pensieri. Attraversavo gli strati della terra, sprofondando sotto la crosta terrestre diretto al centro. Strati ricoperti di stronzate, stronzate stratificate! Sempre più numerose, che passavano per verità, e mi resi conto che tutta la verità nel mondo si risolve in una sola grande menzogna.
Non mi dispiaceva più di allontanarmi da casa. Ripensai per un solo istante a quel paese, dove sono nato, ormai lontano, remoto, irto su un monte arroccato nella terra dell’osso. Qualcuno, forse, era ancora rimasto lì, fottuto su quella montagna, dove si maledicono gli uni con gli altri per l’eternità. Se fossi rimasto lì stato mi sarei di certo impiccato, non avendolo fatto a sedici anni, quando facevo il liceo e non potevo scappare. Quel paese, Gesù Cristo non l’ha salvato. Ma non mi frega un cazzo. E’ così che deve andare.
Guardavo dalla finestra. Mi nascondevo dietro i vetri. Allora, come adesso, non riuscivo mai ad alzarmi dal letto, né riuscivo mai a prendere sonno. Avevo bisogno di un valium, ma non ce l’avevo. Presi semplicemente a bere una birra in lattina.
Scesi dal treno nella stazione più piccola e abbandonata che c’era. Mi accesi un altro po’ di tabacco, e mi misi in cammino verso un campo di grano, con uno zainetto in spalla.
Avevo deciso di non scegliere.
Nell’epoca dove tutto è falso, non esiste più una linea da seguire ma soltanto prodotti da comprare, crampi allo stomaco, bugie e occasioni perse.
Non saper mai scegliere e sbagliare quasi sempre. Dover scegliere sempre, come al supermercato. Paghi due, prendi tre, e ti regalano anche un cazzo finta da infilarti nel culo.
Rivedo le pubblicità di fine anni ’80 – inizio ’90, e vedo come la tv ha rovinato il mio cervello nell’infanzia. Ricordare perfettamente l’omino del bucato e non ricordare affatto chi sei e da dove vieni. Non saper dove stare e come stare , cosa comprare, cosa fare, in eterno. Fino al delirio. E’ così che hanno creato una generazione di depressi.
Questa è la nostra epoca, e per quanto schifo faccia, è la nostra. Semplicemente la nostra, né più né meno.
Mentre pensavo queste cose, zainetto in spalla, nel campo di grano venne un temporale. Si mise a piovere forte ed era bello respirare quell’impasto di odori che si creava e non mi misi a correre . Il sentiero fangoso mi portò vicino a un piccolo ristorante. I tavoli di plastica con le sedie ribaltate sopra fradici di acqua. Entrai e subito una signora mi sistemò in un angolino nell’interno, riservato ai forestieri. La cucina era del tutto casalinga, una vecchia cucina degli anni '60 incrostata, carta da parati rossastra ammuffita, uno scaffalone alto di legno mezzo pieno di recipienti. Dentro una signora sui 40 cucinava mentre la figlia serviva ai tavoli al coperto insieme a una ragazza rumena. All'entrata un piccolo tavolo, forse riservato agli amici, dove un signore bruno e baffuto con la bavetta al collo, consumava un piatto di pasta affamato. Servivano da mangiare e da bere. Vino e piatti locali. La signora parlava in dialetto stretto, decideva lei cosa dovevo mangiare, la prendeva come un'offesa se rifiutavi le sue specialità. Tovaglie bianche a fiori e vecchie sedie sdraio arrugginite e scricchiolanti. Tutto era vecchio di quasi 50 anni, tranne la gente che era ancora più vecchia. Continuavano ad uscire piatti dalla cucina scura, cupa, rossa, gialla,marrone. Uscivano i piatti col bel volto della ragazza. Un signore anziano mi disse in dialetto che ero arrivato nel paese del burrone, nella fossa del diavolo, e si fece una risata.
Tuoni e fulmini e pioggia fuori, rendevano quel posto un felice approdo, accogliente e sicuro.
Non mi sentivo così bene da tanti anni.

giovedì 3 settembre 2009

Estate al bivio

ESTATE AL BIVIO

“Le persone non fanno i viaggi,
sono i viaggi che fanno le persone”

John Steinbeck

Vorrei sprofondare su un letto o su una strada. L’estate non la sopporto. Diventa tutto come in discoteca. Sei costretto a divertirti. Sei costretto ad essere allegro. Anche mentre hai la morte nel cuore. Il tempo è poco. L’imperativo è correre al mare a sciacquarsi le palle. Rimanere bloccati per ore in coda sulla Salerno- Reggio Calabria o morire come mosche sulle autostrade. Correre in Spagna. Correre alle feste e alle sagre, sempre più squallide e insignificanti. Comprare e correre, andare a farsi una lampada. Spendere soldi in vestiti. Farsi vedere dai turisti che vengono una settimana all’anno, figli di emigrati a Roma e in Svizzera, o paesani trapiantati a Napoli.
L’estate a Nusco. Ogni estate riscopro quanto odio questo paese di merda.
I vecchi ballano il latino americano di fronte a due casse e a un dj improvvisato pagato dal comune. Sembra che in estate aprano gli ospizi e il paese diventi proprietà degli anziani. Accorrono 90enni anche dalle città per rinfrescarsi le natiche. I pochi giovani, spauriti, organizzano feste pacchiane da discoteca cercando di emulare lo stile metropolitano di Milano marittima, in questo clima rurale, e diventano a dir poco patetici agli occhi di chi per sbaglio o per caso viene da fuori e assiste a tutto questo. Credono di essere “metropolitani” ma in realtà arriveranno per ultimi come per tutto il resto. Qui infatti per molti la castità è ancora un valore. Se guardi una bella ragazza puoi trovarti a dover litigare con il fratello o col cugino. Si vestono come le oche in tv, ma il loro cervello è ancorato a una mentalità antica. Alcuni ragazzi, annoiati, vanno a farsi una canna dietro la villa e così raggiungono l’apice della serata. Sono dei coglioni e si credono moderni e migliori degli altri.
Ma le feste che vanno per la maggiore in irpinia sono le sagre della pizza e della birra, alla faccia della novità. Feste che mettono depressione, uno dei paradossi di questa terra.
Certe sere mi viene da svenire. Penso che non voglio finire così. Mi sento osservato, voglio sparire.
Odio l’estate. Non riesco a trovarvi pace. Io sono per l’inverno. Non amo il giorno, amo la notte.
Stasera c’è un gruppo folk in piazza che fa balli di gruppo. Tutti i pensionati, gli emigrati tornati in vacanza, si mettono in fila e ballano scuotendo le loro pance. L’età media è settant’anni. Il paese è pieno di macchine e non si riesce a parcheggiare da nessuna parte, alcuni dalle loro finestre osservano e non vedono l’ora che vadano tutti via e si torni nel mortorio dell’inverno per poi lamentarsi del fatto che non c’è nessuno. Il fatto è che qui, quando il paese si riempie, si riempie solo di gente di merda. Dal pomeriggio sono arrivati camion di napoletani e vecchie mercedes scassate con a bordo nordafricani per allestire la festa. Arriva la sera e si aprono i camion della pizza, le bancarelle delle salsicce alla brace, e le bancarelle dei marocchini, affiancate da motorini rumorosi a nafta per illuminare le lampadine poste sulla sommità, che vendono cassette e cd falsi di Gigi d’Alessio. I miei vecchi prima di perdersi in questo trambusto di pensionati, sono andati alla processione, e come tanti rettili seguono la Madonna dell’Assunta in alto sul trattore addobbato di carta colorata. Le vecchie in prima fila lamentano dei canti religiosi, la più cattolica di tutte col megafono le fa da guida, come nei cori allo stadio, solo che qui l’aria è funebre e assomiglia a una lunga nenia pietosa.
Odio la morale cattolica di questo cazzo di paese. A volte vorrei salire sul campanile con un megafono e lanciare una gigantesca bestemmia.
Per dieci giorni all’anno, il paese si riempie di queste pagliacciate e di questi spettacoli penosi, che mi fanno rimpiangere l’inverno e la solitudine e il freddo, e le lunghe serate al bar in tre o al massimo in quattro.
Io mi isolo più che posso, evito di stare con i parenti, che fanno grandi pranzi e grandi cene che durano ore ed ore tutti i giorni. Si mettono a tavola e non si alzano più, questo è il festeggiamento pagano dei cattolici. Io da laico, mi sento finanche più spirituale. Evito di salutare tutti. Salutare e farsi salutare dai parenti diventa un’ossessione, ma che ormai riesco ad evitare benissimo.
Ogni sera prendo la macchina e vado via da qualche altra parte, non voglio vedere queste scene che hanno rovinato fin troppo la mia adolescenza.

Depressione. Un giorno scriverò una guida turistica : “Guida ai luoghi della depressione”.

Vorrei perdermi in un letto, o su una strada che non esiste. L’importante è stare lontano dagli esseri umani. Mai come ora non si può stare in pace. Voglio l’inverno, i tuoni, i lampi, i fulmini!
Ogni estate ti separa da qualcuno, ogni estate ti fa perdere e ti fa poi raccogliere i pezzi di quello che hai perso.
La mia vacanza è stare in un luogo dove non mi conoscono, frequentare un bar senza rompi coglioni, svegliarmi alle due, dormendo in una stanzetta abbastanza grande per dormire e per avere un cartone di birra fredda.
Invece sto qui.
Quando mi capita di uscire per strada in questo posto, si cala un velo davanti agli occhi, la testa mi diventa pesante. Vedo i soliti vecchi, le solite facce, le solite stronzate sulle loro bocche, che portano sonno. Un sonno pesante, che tende alla depressione. E’ proprio il paese a dormire un sonno profondo. Su di esso, cala normalmente una cappa di noia, fiacchezza, fatica, lentezza.
La vita che si fa qui è una vita da bar. I giovani, i vecchi, buttati davanti a un bar si lamentano. Dicono che c’è poca gente, dicono che prima si stava meglio e ci si divertiva, dicono che domani mattina devono andare a lavorare, dicono che non hanno soldi. Questi ultimi tuttavia, che si lamentano, è molto facile vederli in giro a bordo di una mercedes o di una spider da 30 000 euro. Per sentirsi V.I.P. in mezzo ai pezzenti. Per analogia, chi parla di cultura o dice di essere un artista, lo fa per sentirsi V.I.P. in mezzo agli ignoranti.
Si riuniscono giocando sui tavoli di plastica del paese per giocare a carte, e tra una giocata e l’altra urlano bestemmie contro i santi, la madonna e il padre eterno. Bestemmiano per le regole del gioco e per maledire la propria vita e il proprio paese.
Le sere d’estate del paese si riempiono anche di un altro tipo di palloni gonfiati. Mi riferisco alla così detta elites nuscana ( così detta per auto proclamazione ). I fantomatici-patetici-sgradevoli nobili del paese nonché filosofi e menti illuminate, esseri superiori, e continuatori naturali dell’illuminata(?) politica di Ciriaco De Mita, presidente del consiglio nel 1988, ex segretario della gloriosa(?) D.C.
Queste più che patetiche casate nobiliari, si intrecciano tra di loro coi matrimoni, si dividono posti di lavoro e cariche amministrative, cercando di feudalizzare il territorio e i suoi abitanti. Camminano per le vie del paese così come Gesù Cristo camminava sulle acque. Portano rancore e reale disprezzo verso tutti. Sono nobilmente distaccati, e hanno sempre ragione. Li ammazzerei tutti.
E’ così tutti insieme camminano accidiosi e sentenziosi per le vie diafane del paese.
Il paese – barzelletta, che a volte quando dici di essere di lì’ ti guardi attorno e lo dici a bassa voce, per non farti sentire.
Ecco perché quando cammino per le vie del paese in estate, non posso fare altro che bere e vomitare, e poi farmi dire da loro che sono uno sbandato, un barbone destinato al manicomio. Comunque, vomitiamo e passiamo avanti, parafrasando Dante : “Non ti curar di loro ma guarda e passa”.

Nella canicola estiva ecco che d’improvviso compare una troupe del cinema, che vuole girare un film comico napoletano con l’attore Biagio Izzo. Parcheggiano i loro camion, si riversano negli alberghi. Portano sopra Nusco il costoso culo di Alena Seredova. Mentre girano le scene si staranno chiedendo in che razza di posto sono capitati e com’è strana la gente del luogo, nonché “come cazzo fanno a campare qua sopra?”.
Mi fermo a parlare con loro, mi guardano come un indigeno del luogo da studiare. I tecnici hanno accento romano, alcuni del cast sembrano filosofi napoletani con la puzza sotto al naso e con l’altarino di Massimo Troisi sopra al comodino. Già a pelle mi stanno sul cazzo, i napoletani. Mi chiedono se voglio fare la comparsa, gli dico – ok - , ma poi presto me ne vado e mando a cacare il film. Non perché ci siano altre cose più interessanti da vedere, ma per abitudine.
Le giornate non passano mai.
Sull’orlo del pomeriggio sono solito andare in un bar che si trova proprio sul bivio. Tra la valle del Calore e la valle dell’Ofanto. Da una parte i vigneti del Calore, dall’altra i campi di grano dell’Ofanto. Sospesi in mezzo prendendo un po’ da una parte e un po’ dall’altra, dove in realtà sei in mezzo e basta, sei dentro, ma sei fuori da un paese, osservi tutto da fuori. Lì s’incontrano calorani e ofantani e gente dell’ufita, e si scontrano in teatrali battibecchi. La mia pausa non dura più di un’ora, ma mi basta per vedere queste scene nel frammezzo di un via vai di Peroni, di gratta e vinci e di Amaro Lucano.

Con me è presente sempre la stessa combriccola. Tra un tavolo e l’altro, tra mazzi di carte e giornali ci trovi Michele, che legge il giornale ed è in tutto e per tutto un’eccezione lì in mezzo. Una specie di oracolo in mezzo all’afa pomeridiana, tra due strade che scendono verso due mari diversi, una verso il tirreno, una verso l'adriatico. Ci tratteniamo volentieri a parlare. E’ l’oracolo del bivio. Si parla del blog, dell’Irpinia, dell’Ofanto e si arriva in Lucania. Il suo sguardo è più rivolto all’Ofanto, ovvero ad est. Verso un orizzonte che dice essere più aperto, più ampio.
In effetti basta prendere la macchina e decidersi di buttarsi nella valle per perdersi, ed è un piacere bruciare carburante da solo in mezzo al grano e al vento. Non sei tu a seguire la strada ma è lei a seguirti.
Io mi ci butto, senza la speranza di trovare qualcuno. Libero dalla speranza. Vento e polvere sulla mia faccia.
La base di partenza resta il bivio. L’angolo dove si snodano percorsi ipotetici.
A furia di andare lì, il bivio è diventato a poco a poco una sorta di ufficio. Tutte le notizie delle due valli in un modo o nell’altro passano di lì, di modo che tutto si sa e nulla si racconta in giro.
Mentre beviamo un caffè e diamo un’occhiata al giornale, arrivano a frotte macchine, trattori e treruote e parcheggiare. Il faticoso trascorrere della vita, che passa velocemente tra una birra e l’altra.
Si sta lì in bilico, scegliendo la strada da percorrere. Est o ovest. L’importante per chi è nato qua è andarsene. Una scelta che ti può cambiare la vita. E’ già una fortuna che nel mezzo di questa scelta, nel bivio, ti servano anche un caffè.