“Quanto es mejor el vino quel el aqua…”
Se si spegnessero tutte le televisioni, e la gente per bene si spostasse dalle vie più “in” della città sarebbe sotto gli occhi di tutti che non esistono solo macchine da soldi, robot e burattini : c’è sempre qualcuno che soffre all’angolo, che vive magari scaricando casse di birra nella bettola di qualche bastardo. E poi c’è sempre un cuore di cane che vuole amare una cagna, che invece si defila indifferente e lo lascia a bere da solo in un bar di periferia.
Al mio amico Alex addirittura successe questo : era lì che aspettava il treno nella stazione di Bologna per scendere dal suo amore con un mazzo di rose in mano e due biglietti per volare in Spagna, verso le affollatissime isole colme di discoteche e gente finta e colorata. Aveva di certo ottime intenzioni. Marta, la sua donna, mentre Alex era in viaggio si era calcolata le ore (otto) e lo aspettava a suo modo. Lo aspettava sfogando su un ragazzo 10 anni più giovane di lei il suo fastidio di essersi accasata con birre e sesso. Mentre il treno scendeva da Bologna centrale verso Napoli centrale, Marta aveva un arnese piantato in mezzo alle gambe. Dopo qualche ora sarebbe stata invece una ragazza dolce, gentile e fedele.
Quella stessa sera mi giunse anche la notizia che la mia ex stava per celebrare le sue nozze con uno sfigato, e la cosa mi faceva sorridere.
Lo strascicarmi lento, pesante, curvo per strada era la fatica del mio vivere, diceva Emanuele. Un passo alla volta fino alla luna innalzando il bicchiere in un pugno come una spada. Mi sentivo il primo ubriaco sulla luna.
In altro modo non potevo arrivarci alla luna. Il mio letto era il marciapiede, i miei compagni le bottiglie vuote sparse e la polvere dell’asfalto.
Quello che lasciavo intendere era : -.Non mi si può raggiungere perché non sono sempre nello stesso posto, non mi si può nemmeno parlare addosso perché nel frattempo sono già andato via! -
Avevo imparato che il vero pericolo è quando qualcuno ti vuole aiutare. Meglio stare soli.
Restando, mettendo radici da qualsiasi parte và a finire sempre che uno stronzo finisce per comandarti a bacchetta. Perciò con la faccia spiaccicata sul marciapiede guardavo la polvere, stavo attento al fatto che si posava presto a terra, molto presto.
Tra il marciapiede e la luna mi chiedeva quanto contava l’amore. Contava tanto che le vene si stancavano molto prima che si fermasse il cuore. Nei rifiuti stavo e dai rifiuti venivo.
Forse era estate, così dicevano i manichini. Andavano sulla spiaggia, io restavo al bar semivuoto, afoso, appiccicoso con l’asfalto bollente che entrava dentro. E di notte, a parte la luna e io, rimaneva qualche mosca morta spiaccicata sul pavimento.
Nessuno ci credeva, soprattutto l’uomo della luna, che saremmo restati e finiti qui proprio noi , a doverci prendere le colpe e le rogne di questo posto. Ti trattengono, vogliono farti restare, e si resta consapevoli del fatto che ti stanno derubando, che limitano il tuo spazio di vita a quelle poche ore che passi al bar.
A parte le mosche, al bar quella notte fece la sua triste comparizione Toni, con la sua faccia pallida da lampadina fulminata.
Toni era andato due volte in coma etilico, era entrato ed uscito dall’inferno, aveva toccato con mano. Ora giaceva con gli occhi sbarrati, un bypass al cuore e un boccale di birra in mano davanti alla porta. Nonostante tutto gli era sempre stata vicino una donna, che aveva sempre convissuto coi suoi deliri, e stranamente lo amava . Si trascinavano anche loro. Toni andava a puttane polacche e Margherita sognava un uomo migliore.
Io giocavo alla roulette russa col passato, uno solo doveva spuntarla, in due eravamo troppi. Era solo questa la lotta che mi potevo permettere, essere tagliato fuori dalla civiltà era già un piccolo lusso.
Toni era un ex skinhead, aveva una pistola e un coltello sempre appresso. Puntò la pistola sul bancone e mi chiese di scegliere: morire una volta per tutte senza strascicarmi più o guadagnare la vita. Era un gioco che aveva senso per me in quei momenti, nonostante quella proposta suonasse come una minaccia. Non avevo nessuna vita da perdere e forse una da guadagnare, così giocai.
Io ero lucido, Toni era in preda al delirio, parlava a sé stesso e si ripeteva : - Fottuti ebrei del cazzo… fottuti froci…che mondo di merda…perché vivere in questo mondo di merda… che schifo… che schifo…dovrebbe tornare Hitler per sistemare un po’ le cose!...Siamo finiti in mano ai froci, ai negri e agli ebrei! Porci schifosi….Ma io gliela farò pagare…si …gliela farò pagare…-.
Non gli rispondevo niente, il mondo mi appariva soltanto ancora più triste di quanto già non fosse. L’umanità era avvolta da una sola grande infinita tristezza.
-Dai inizia tu! – mi chiese Mario. (“…fottuti froci del cazzo…”)
-Ok- inizio io.
Guardai la birra, la mia faccia si specchiava deformata sul suo collo verde, ero sereno, si stava avvicinando la fine, ero alle strette. - Un solo colpo, un solo colpo, sereno, ed è finita-. Prima di farmi fuori non pensai a nessuno, vidi un cielo azzurro, mi misi la pistola sulla tempia, sparai con gli occhi aperti.
La pallottola restò dentro, non era toccato a me. Il mondo tornò marrone, grigio, livido.
Prese la pistola Toni e se la infilò in bocca in un attimo ridendo nervosamente, mi guardò negli occhi e sparò. Niente. Il suo cervello restò integro.
Poi restò immobile, sbiancato, come se avesse visto l’inferno.
-E’ il mio turno- dissi.
-No, non ti regalerò un’altra opportunità, stavolta sparo io… -. Si diresse fuori dal locale con la pistola in mano, il fatto che nessuno ci avesse notato era la cosa più sconvolgente. Si sedette su un muretto e si accese una sigaretta.
Io ero sul tavolo, la birra era ancora li. Sentii un colpo fare cilecca, poi un altro. Anche il terzo fece cilecca.
Tra l’uno e l’altro non so quanto tempo passò, Il quarto colpo non fallì.
Non sapevo se avevo realmente guadagnato la vita o se avevo perso l’occasione di sparire. Mi sentii ancora più inutile, la mia vita non valeva di più di una pallottola. Quanti pensieri avevo in testa, Toni di sicuro ne aveva di meno ed era riuscito a spararsi. Vedevo solo me stesso e i miei pensieri, i miei problemi, il resto mi girava attorno.
La mia ragazza non ne poteva più di me, delle cazzate che le dicevo, cercava di lasciarmi in tutti i modi ma non ci riusciva, qualcosa la faceva sempre tornare indietro. Sapeva che cercavo di giustificare il fatto che fossi una nullità. Si disperava e piangeva, aveva commesso l’errore di affezionarsi troppo a me. Era consapevole che stava sprecando la sua vita così come la stavo sprecando io, sapeva che la mia vita era corta e si stava accorciando anche la sua. Non prese mai una decisione, né il tempo la aiutava.
La chiamai. Mi misi in macchina prima che arrivasse la polizia o i carabinieri, e andai via. La chiamata nel cuore della notte la spaventò.
-Vuoi partire con me per Singapore?-.
-E’ uno scherzo?-
-No-
-Quando?-
-Adesso-
-Luigi, sei ubriaco, stai impazzendo, io non ce la faccio più…-
-Io vado, non sarò raggiungibile-.
Forse non sentì nemmeno la mia ultima frase perchè attaccò il telefono, pensava al mio ennesimo delirio da ubriaco, non potevo biasimarla. Non avevo guadagnato la mia vita quella sera, ma l’avevo regalata a lei, almeno a lei. Adesso era libera, adesso era viva.
Ogni cosa al suo posto, lei sposata con un onesto lavoratore, e io a Singapore, un posto a caso, abbastanza lontano.
Se avevo perso qualcosa, avevo guadagnato anche qualcosa.
Nella mia mente solo pistole metaforiche, fantasmi in carne ed ossa, specchi fatti di colli di bottiglie di birra.
In paese dissero che morì con una birra in mano e qualcuno disse che invece si era trasferito a Singapore e viveva in un container lungo il porto cibandosi di avanzi.
Non si capì mai la differenza.