lunedì 31 ottobre 2011

L'ubriaco e la luna


“Quanto es mejor el vino quel el aqua…”

Se si spegnessero tutte le televisioni, e la gente per bene si spostasse dalle vie più “in” della città sarebbe sotto gli occhi di tutti che non esistono solo macchine da soldi, robot e burattini : c’è sempre qualcuno che soffre all’angolo, che vive magari scaricando casse di birra nella bettola di qualche bastardo. E poi c’è sempre un cuore di cane che vuole amare una cagna, che invece si defila indifferente e lo lascia a bere da solo in un bar di periferia.

Al mio amico Alex addirittura successe questo : era lì che aspettava il treno nella stazione di Bologna per scendere dal suo amore con un mazzo di rose in mano e due biglietti per volare in Spagna, verso le affollatissime isole colme di discoteche e gente finta e colorata. Aveva di certo ottime intenzioni. Marta, la sua donna, mentre Alex era in viaggio si era calcolata le ore (otto) e lo aspettava a suo modo. Lo aspettava sfogando su un ragazzo 10 anni più giovane di lei il suo fastidio di essersi accasata con birre e sesso. Mentre il treno scendeva da Bologna centrale verso Napoli centrale, Marta aveva un arnese piantato in mezzo alle gambe. Dopo qualche ora sarebbe stata invece una ragazza dolce, gentile e fedele.

Quella stessa sera mi giunse anche la notizia che la mia ex stava per celebrare le sue nozze con uno sfigato, e la cosa mi faceva sorridere.

Lo strascicarmi lento, pesante, curvo per strada era la fatica del mio vivere, diceva Emanuele. Un passo alla volta fino alla luna innalzando il bicchiere in un pugno come una spada. Mi sentivo il primo ubriaco sulla luna.

In altro modo non potevo arrivarci alla luna. Il mio letto era il marciapiede, i miei compagni le bottiglie vuote sparse e la polvere dell’asfalto.

Quello che lasciavo intendere era : -.Non mi si può raggiungere perché non sono sempre nello stesso posto, non mi si può nemmeno parlare addosso perché nel frattempo sono già andato via! -

Avevo imparato che il vero pericolo è quando qualcuno ti vuole aiutare. Meglio stare soli.

Restando, mettendo radici da qualsiasi parte và a finire sempre che uno stronzo finisce per comandarti a bacchetta. Perciò con la faccia spiaccicata sul marciapiede guardavo la polvere, stavo attento al fatto che si posava presto a terra, molto presto.

Tra il marciapiede e la luna mi chiedeva quanto contava l’amore. Contava tanto che le vene si stancavano molto prima che si fermasse il cuore. Nei rifiuti stavo e dai rifiuti venivo.

Forse era estate, così dicevano i manichini. Andavano sulla spiaggia, io restavo al bar semivuoto, afoso, appiccicoso con l’asfalto bollente che entrava dentro. E di notte, a parte la luna e io, rimaneva qualche mosca morta spiaccicata sul pavimento.

Nessuno ci credeva, soprattutto l’uomo della luna, che saremmo restati e finiti qui proprio noi , a doverci prendere le colpe e le rogne di questo posto. Ti trattengono, vogliono farti restare, e si resta consapevoli del fatto che ti stanno derubando, che limitano il tuo spazio di vita a quelle poche ore che passi al bar.

A parte le mosche, al bar quella notte fece la sua triste comparizione Toni, con la sua faccia pallida da lampadina fulminata.

Toni era andato due volte in coma etilico, era entrato ed uscito dall’inferno, aveva toccato con mano. Ora giaceva con gli occhi sbarrati, un bypass al cuore e un boccale di birra in mano davanti alla porta. Nonostante tutto gli era sempre stata vicino una donna, che aveva sempre convissuto coi suoi deliri, e stranamente lo amava . Si trascinavano anche loro. Toni andava a puttane polacche e Margherita sognava un uomo migliore.

Io giocavo alla roulette russa col passato, uno solo doveva spuntarla, in due eravamo troppi. Era solo questa la lotta che mi potevo permettere, essere tagliato fuori dalla civiltà era già un piccolo lusso.

Toni era un ex skinhead, aveva una pistola e un coltello sempre appresso. Puntò la pistola sul bancone e mi chiese di scegliere: morire una volta per tutte senza strascicarmi più o guadagnare la vita. Era un gioco che aveva senso per me in quei momenti, nonostante quella proposta suonasse come una minaccia. Non avevo nessuna vita da perdere e forse una da guadagnare, così giocai.

Io ero lucido, Toni era in preda al delirio, parlava a sé stesso e si ripeteva : - Fottuti ebrei del cazzo… fottuti froci…che mondo di merda…perché vivere in questo mondo di merda… che schifo… che schifo…dovrebbe tornare Hitler per sistemare un po’ le cose!...Siamo finiti in mano ai froci, ai negri e agli ebrei! Porci schifosi….Ma io gliela farò pagare…si …gliela farò pagare…-.

Non gli rispondevo niente, il mondo mi appariva soltanto ancora più triste di quanto già non fosse. L’umanità era avvolta da una sola grande infinita tristezza.

-Dai inizia tu! – mi chiese Mario. (“…fottuti froci del cazzo…”)

-Ok- inizio io.

Guardai la birra, la mia faccia si specchiava deformata sul suo collo verde, ero sereno, si stava avvicinando la fine, ero alle strette. - Un solo colpo, un solo colpo, sereno, ed è finita-. Prima di farmi fuori non pensai a nessuno, vidi un cielo azzurro, mi misi la pistola sulla tempia, sparai con gli occhi aperti.

La pallottola restò dentro, non era toccato a me. Il mondo tornò marrone, grigio, livido.

Prese la pistola Toni e se la infilò in bocca in un attimo ridendo nervosamente, mi guardò negli occhi e sparò. Niente. Il suo cervello restò integro.

Poi restò immobile, sbiancato, come se avesse visto l’inferno.

-E’ il mio turno- dissi.

-No, non ti regalerò un’altra opportunità, stavolta sparo io… -. Si diresse fuori dal locale con la pistola in mano, il fatto che nessuno ci avesse notato era la cosa più sconvolgente. Si sedette su un muretto e si accese una sigaretta.

Io ero sul tavolo, la birra era ancora li. Sentii un colpo fare cilecca, poi un altro. Anche il terzo fece cilecca.

Tra l’uno e l’altro non so quanto tempo passò, Il quarto colpo non fallì.

Non sapevo se avevo realmente guadagnato la vita o se avevo perso l’occasione di sparire. Mi sentii ancora più inutile, la mia vita non valeva di più di una pallottola. Quanti pensieri avevo in testa, Toni di sicuro ne aveva di meno ed era riuscito a spararsi. Vedevo solo me stesso e i miei pensieri, i miei problemi, il resto mi girava attorno.

La mia ragazza non ne poteva più di me, delle cazzate che le dicevo, cercava di lasciarmi in tutti i modi ma non ci riusciva, qualcosa la faceva sempre tornare indietro. Sapeva che cercavo di giustificare il fatto che fossi una nullità. Si disperava e piangeva, aveva commesso l’errore di affezionarsi troppo a me. Era consapevole che stava sprecando la sua vita così come la stavo sprecando io, sapeva che la mia vita era corta e si stava accorciando anche la sua. Non prese mai una decisione, né il tempo la aiutava.

La chiamai. Mi misi in macchina prima che arrivasse la polizia o i carabinieri, e andai via. La chiamata nel cuore della notte la spaventò.

-Vuoi partire con me per Singapore?-.

-E’ uno scherzo?-

-No-

-Quando?-

-Adesso-

-Luigi, sei ubriaco, stai impazzendo, io non ce la faccio più…-

-Io vado, non sarò raggiungibile-.

Forse non sentì nemmeno la mia ultima frase perchè attaccò il telefono, pensava al mio ennesimo delirio da ubriaco, non potevo biasimarla. Non avevo guadagnato la mia vita quella sera, ma l’avevo regalata a lei, almeno a lei. Adesso era libera, adesso era viva.

Ogni cosa al suo posto, lei sposata con un onesto lavoratore, e io a Singapore, un posto a caso, abbastanza lontano.

Se avevo perso qualcosa, avevo guadagnato anche qualcosa.

Nella mia mente solo pistole metaforiche, fantasmi in carne ed ossa, specchi fatti di colli di bottiglie di birra.

In paese dissero che morì con una birra in mano e qualcuno disse che invece si era trasferito a Singapore e viveva in un container lungo il porto cibandosi di avanzi.

Non si capì mai la differenza.

Quando sei solo


Quando sei solo nessuno

Vuole vederti

Quando sei solo le donne

Trovano sempre un altro

Impegno,

gli amici non escono e

restano a casa.

I bar chiudono.

Piove.

Quando sei solo negli

Occhi di chi ti sta intorno

Sei un pazzo.

Quando sei solo in mezzo

Alla gente.

Bevi un whisky

Ti rendi conto che

Sei troppo poca cosa.

Vuoi evitare di farti domande

Che

Potresti sapere la risposta.

Il Papa sulla sedia elettrica

Il Papa sulla sedia elettrica

Tutti lo dovrebbero sapere

Che gli ombrelli costano di più

Quando piove…

Che anche le donne sono usa e getta.

E cadono sempre in piedi come i gatti.

Che i soldi dati ai preti non finiscono ai poveri.

Che maledico congreghe, partiti, laici e santoni

Istruzioni, istituzioni e pubbliche istruzioni.

Poeti oratori monaci e fazioni.

Che non prediligo

Alcuna scelta ascetica.

Che ho sognato il Papa

Sulla sedia elettrica.

Lettere d'amore

Lettere d’amore

Come diceva la mia ex

Val sempre la pena di amare qualcuno.

Di viaggiare insieme nel mondo dei sogni

Oltre l’arcobaleno…in piedi oltre i confini…

Vedere la luce del sole più vicina

Poi mi lasciato regalandomi

Una cartolina.

Lettere d’amore bruciate nel cesso

Che mi aveva regalato la mia ragazza.

Le do fuoco con l’accendino

E le getto nel lavandino.

Le faccio volare in aria

E le butto nel gabinetto.

Parole sincere

Vomitate del cuore

Di istanti che volevo restassero

Immobili… perduti.

A volte li vedo ritornare nelle vetrine appannate dei bar.

Ma non resta che cenere e gesso

Di bigliettini perduti

Di lettere…

…d’amore impiccato…

alla catinella del cesso.

domenica 23 ottobre 2011

Bad as me - single

"Sei la mosca nella birra
sei le chiavi che ho perso
sei la lettera di Cristo sul muro di un cesso,
sei la madre superiora in reggiseno,
sei della stessa brutta razza mia"
(Tom Waits)


http://www.youtube.com/watch?v=cUhnQzjXHHY

Periferie

Ero fermo davanti a un bar di periferia sputando sorseggiando un whisky sputando nervosamente sul marciapiede. Mi grattavo la barba folta e sporca. Maledivo la gente che avevo intorno che parlava soltanto di moda e prodotti da acquistare.
Le periferie sono i luoghi dov’è confinata la mia anima, intrappolata inevitabilmente ai margini in mezzo alla feccia. Sono luoghi creati per tenere confinati i pezzenti, cioè la quasi totalità della gente, dai quartieri ricchi. Sono considerati degli errori, delle macchie che offendono il centro splendente e benestante. Ma sono proprio quelli gli unici luoghi in cui la vita è vera, lì dove la vita è una porcheria.
Mi trovavo in uno di quei grandi quartieri grigi della litoranea. La differenza tra la campania costiera e la campania interna è che nella prima sparano agli altri, nella seconda sparano a loro stessi. La paranoia è la stessa ma in dosaggi diversi e in modalità diverse. La gente aveva paura di uscire senza un grosso cane da combattimento al guinzaglio o un coltello a serramanico in tasca o una pistola. I padroni della città dormivano nelle loro ville miliardarie, la gente in massa chiusa in casa e c’erano solo poche anime perse sputate fuori in strada. Ero in disparte, mi rivolgevano la parola solo per chiedermi sigarette. Alcune persone hanno l’aria da fumatori così marcata che li riconosci subito da lontano perchè sono avvolti da una strana luce triste e opaca. Io ero tra questi. Decisi di andarmene di lì prima che mi finisse il pacchetto ragionando sulla differenza tra me e un barbone qualsiasi. In realtà siamo tutti parte dello stesso cumulo di rifiuti.
Siamo stati generati dai microbi, da quell’insieme di microbi che chiamiamo Dio.
Arrivai fino al portone d’ingresso di casa. Non vedevo bene il buco dela serratura, la chiave non funzionava bene. Detti un calcio alla porta, provai a spingere ma non si apriva. Decisi molto in fretta di restare la notte in strada. La mia casa mi sputava fuori. C’era un forte vociare proveniente da un vicolo poco distante, andai verso di li. Era l’ingresso di una lugubre discoteca con tanto di buttafuori con occhiali da sole davanti all’ingresso. Non avevo i 30 euro per l’ingresso e comunque non li avrei spesi per entrare lì, così restai a ciondolare li fuori come un minchione.
Tutti gli angoli, i pezzi di asfalto, le facce, i palazzi dei posti che frequento mi fanno venire in mente sempre l’immagine dei topi che frugano nella fogna in cerca di qualche piccola schifezza da mordicchiare.
Tutti i posti si confondono gli uni con gli altri. Cambiano i palazzi ma i topi sono gli stessi.
Il buttafuori mi riconobbe. Era il tipo grande e grosso che una notte prese a mazzate me e i miei amici. Mi intimò di andarmene e mi chiese dov’era l’altro mio amico, quello coi capelli lunghi. –E’ in Spagna – risposi. –Che ci restasse! E tu vattene! -.
Capii che era stato fin troppo gentile visto che non avevo ancora qualcosa di rotto cosi mi defilai un po’. Feci qualche passo e mi appoggiai al muro sfinito come in attesa di vomitare.
Sentii urlare dal profondo della sala del locale nel seminterrato. Facevano spazio e urlavano. C’era un ragazzo con un coltello conficcato nella gamba per terra e nessuno voleva prenderlo in braccio e portarlo fuori per paura di sporcarsi i vestiti. Erano tutti al cellulare a chiamare qualcuno. Poi qualcuno lo portò fuori, era un ragazzo magrissimo intorno ai 20 anni, piangeva e urlava – mamma, mamma-. Si dimenava e si disperava anche per aver sporcato i vestiti e strappato il pantalone. Ci fu una rissa, io aspettavo solo l’energia giusta per staccarmi dal muro e andare a dormire da un’altra parte. Il ragazzino continuava ad urlare, pareva che non avesse degli amici disposti a difenderlo e cercava di rispondere da solo verbalmente con offese e finte minacce. Pensava probabilmente che ormai il peggio fosse passato, invece qualcuno sbucò dalla folla e gli piantò una nuova coltellata all’altezza dello stomaco. Vidi il suo volte diventare bianco in un lampo e sentii entrare nelle mie narici la puzza di merda che gli fuoriusciva dall’addome.
Era proprio giunto il momento di andare via. Ebbi lo slancio giusto solo quando iniziai ad avere paura. Mi misi a camminare velocemente ma non riuscivo ad avere dei passi coordinati. Credo che inciampai e mi trovai davanti la faccia di uno sbirro che iniziava a farmi domande. Che ci facevo in quel locale, che ci facevo in quella città, che ci facevo a quell’ora, perché puzzavo di alcool. Mi chiedeva tutte quelle cose a cui nemmeno io sapevo rispondere. Ero sospettato, ero un barbone del cazzo. Mi salvò soltanto l’arrivo sulla scena di un ragazzo del piano di sopra che sentendo dei rumori era sceso a vedere. Visibilmente fumato in pantofole e col pigiama del Napoli, gli sbirri all’improvviso mi lasciarono perdere e si fiondarono su di lui. Ebbi il tempo di imboccare un altro vicolo. Mi infilai in un altro bar che aveva appena aperto. Giocavano a carte. Mi sedetti e ordinai una birra. Avevo trovato il mio giaciglio.

poesia del cazzo rattrappito

Ho il fegato a pezzi e malandato
lo stomaco perforato
il cazzo rattrappito
le gambe doloranti

Ho ottant'anni
ma ne dimostro meno.