sabato 30 ottobre 2010

Zanzare


Ho qualche malattia, ne sono certo. Penso che tra poco inizieranno a cadermi i denti, mi sveglio e sputo sangue.

Non riesco a trovare pace. Un jegermeister rintontito davanti al bancone con pallide figure melense che mi svolazzano attorno come le zanzare di casa mia in affitto da una nazista di 60 anni che sottomette il marito.

Ogni notte con la mia piccola e ristrettissima combriccola mi sono trasformato nel pagliaccio di turno di questa landa desolata, di questa fogna circense, fino ad essere diventato quello fisso, conosciuto da tutti come un personaggio.

Nessuno forse immagina quanto sono inquieto, quanto avrei bisogno di starmene da solo, più di quanto non lo sia ora. Vorrei andare alla ricerca di compagnia, doverla trovare in qualche bar notturno o in qualche scialba mattina universitaria anziché dovermela subire, dovermela ritrovare davanti sempre.

In ogni casa, in ogni posto che frequento ad un certo punto arrivano gli intrusi, gli scarafaggi. Esiste una socialità forzata che si impongono i miei compari, un vivere comune, o anche una vera e propria “comune” che per me rappresenta un incubo. Io sono sempre quello della brandina e della bottiglia di vino tra quattro mura, e un posacenere pieno, dei fogli di carta e buona musica.

Perché queste persone che ho intorno si sentono dei ragazzini a 30 anni? Io me ne sento già 80 addosso escludendo anche quelli che attualmente ho.

Le minchiate, i criceti nel cervello, le canne, parlare senza dire niente che non sia una cazzata, i bonghetti, i rasta, il reggae, i sobborghi di periferia meridionale. L’università : il cesso dove ci vanno tutti in fila, ma proprio tutti. Ad imparare cosa? Non lo sanno neanche. E’ un automatismo, ci si và e basta. Le serate d’ammasso, serate in cui ci si perde in quella squallida allegria di luci finte colorate e sorrisi di plastica televisivi.

Nessuno ci crede mai quando dico che sono di passaggio, che non sono come loro : uno stronzo che si impianta in un posto anonimo e non si schioda più, soddisfatto del proprio piccolo orticello di merda.

Un paese ce l’ho, anche se non è il mio, ma è il posto più instabile della terra: ci si deve buttare a tutti i costi dallo strapiombo, di notte. E quando scendi le montagne sembrano inquietanti ombre di giganti che tremano. Le vie boscose si chiudono lungono il percorso a poco a poco. Bisogna girarci intorno, girare attorno a quell’antenna attraversando vie impervie per uscirne.

Ecco perché ogni volta rispunta il mio taccuino alle quattro e mezza del mattino. I tarli nel cervello : maledetti pezzi di merda. Vedo troppe mosche, anch’io mi sento una mosca che viscida svolazza per andare a poggiarsi sugli escrementi di un cane. E mi sento bene solo quando bar il cervello non mi dice niente e quando il abr non mi dice niente e non mi conosce e non mi propone alcunché. Che pattumiera ‘sto cervello ! Dove andarlo a svuotare è il problema. Perché ognuno qui di queste mosche che mi ronzano intorno ha bisogno di essere ascoltato, di essere seguito, assecondato, accomodato. Non posso ascoltarli più da quando ho iniziato a parlare con me stesso dato che nessuno mi voleva sentire.

L’alienazione non è un male se è vero che ognuno di noi è una moltitudine. Così’ non mi spavento più e non rimango più perplesso se una sera entro nel cesso di un bar di terza categoria e trovo un tossico che caca sul pavimento. Un tanfo nauseabondo dove tutto fa schifo.

Gli ho detto – ehi quando cazzo esci da li dentro che devo pisciare? -. Mi risponde che ne ha ancora per molto rigirandosi nelle sue feci e nel suo vomito.

Sei strafatto di eroina!-

Piagnucolando risponde di si.

-E io piscio nel lavandino! –

Esco dal bagno e dico alla fila urinante – signori, signori, c’è un tossico incastrato nel gabinetto, buttatelo fuori voi - .

-Ecco cos’era quel tanfo orribile…- .

Non mi interessa nemmeno se la donna non vuole scopare. Va bene lo stesso, va bene. Un bacio e poi mi fai la faccia da stronza? Va bene! Addio! Quello che importa è che ho potuto fare una pisciata, fermandomi al distributore di benzina.

mercoledì 27 ottobre 2010

Il mio bar

Serve sempre un bar,

un bar che non ha niente da dirti,

esattamente come me.

E una casa

se non per il gusto di lasciarla.

Non c'è niente da fare nella vita,

esiste un vuoto freddo,

così la gente si inventa qualcosa:

chi fa i figli, chi si sposa, chi lavora

molto più del necessario.

Qui si gioca a carte:

pena di chi il successo l'ha agognato

e non l'ha mai avuto.

E le carte, tristi, risuonano

nel freddo loro odore acre

di luci al neon iniettate di zanzare.

Un quasi silenzio pesante

poi il rumoroso parlare di idioti

non molto distante.

Per me era accomodante,

ma il mio bar non ha muri nè prigioni

Non è libero nè felice

ma spalancato.

E' il bar di chi se l'è trovato.

Con tanti saluti



Non ci sono per nessuno,

nemmeno per me.

Tanti mi odiano

e io odio loro.

Trovo di stare più al sicuro

in queste gelide mura.

O camminando liberamente per le strade.

Sono rimasto a terra sull'autostrada,

con una gomma da cambiare.

Mi piove addosso,

non confido in qualcuno

per darmi una mano.

Mi stavo quasi ammazzando.

Sempre di corsa

da un posto all'altro

per affari di cui non mi frega un cazzo.

Questioni di denaro.

L'unico modo per spalare la merda

è mettersi i guanti.

L'unico linguaggio che la gente capisce

è il linguaggio del pagamento in contanti.

dove stare?

Vorrei essere altrove,
non so quando non so dove.
Ricordo vagamente cosa...
la trasformazione...costante...
ogni volta la stessa
ogni volta diversa.

La desolazione...

negli occhi di chi resta.

Non fa compagnia

non riscalda

non riluce.

Nel buio tutto tace.

Il bar dimenticato all'angolo

scampo di pochi fessi

imbarbariti dalla televisione

che trasmette le partite

e le facce felici

di gente ricca, drogata e depressa.

Non esistono stagioni,

non è estate, non è inverno, non è nemmeno primavera.

Qualcuno piange per piangere,

qualcuno pietrificato non sa come rimediare.

Dove stare?