lunedì 26 settembre 2011

Matrimonio

Vivo qui. In un piccolo paese di stronzi, dove anche chi viene da fuori lo diventa. Sono troppo nervoso per scrivere, ho troppa rabbia da cacciare fuori e troppa repressione.

I miei amici non hanno capito che sono morto. Non esiste più da parecchio tempo, io continuo a dirlo, a scriverlo, a mettere i manifesti e loro manco per il cazzo.

Ok, io mi metto nel cesso come i vecchi tempi, sbatto a terra la chitarra, scrivo poche righe nervose, con l’alcool di prima ancora in testa che scende piano piano fino a farmi precipitare con la testa sul pavimento.

Basta compromessi, ora basta. Devo maledire Dio per quello che mi ha fatto. Devo trovare una qualche forma di dignità nel stare antipatico anche a me stesso. Non mi interessa nemmeno più tutta questa massa di mignotte che mi balla intorno.

E’ ancora estate, qui anche le stagioni non hanno senso. Non fa alcuna differenza. E’ un’estate depressa, paranoica, buona per suicidarsi. Anche i camerieri in quella fogna di bar di paese ti trattano male con la massima cafoneria possibile, zoticoni usciti dalle caverne. La loro vita vale quanto quella di una mosca, stretti nella morsa della tirchiaggine, figli di puttana con seri problemi mentali associati a quozienti intellettivi molto bassi. La bettola è travestita da locale moderno alla moda, come i suoi clienti. E’ la vetrina della tristezza che si vive: la vetrina dei tarocchi, delle false troie, dei finti in tutto, degli annoiati, di chi si deve divertire per forza. Il divertimento in certi casi è molto più noioso del lavoro. Mentre sto fermo il barista cavernicolo mi urla contro i suoi ragionamenti da ritardato con fare ridicolo, fuori dal mondo e io non lo seguo. I ragazzi, tutti, hanno smesso di fumare, allora vengono da me a scroccare sigarette, dopo mezz’ora me ne hanno fregate dieci. Alla fine viene l’ennesimo e lo mando a fanculo. Un coglione imbottito di psicofarmaci con la faccia da ebete che pare rassegnato o contento di stare in questo piccolo ritrovo estivo di pezzi di merda.

Ho preso l’abitudine di bestemmiare Cristo, la Madonna e tutti i santi continuamente. In questo mi sono adattato al contesto.

Sono invitato al matrimonio di mia sorella. L’invito è arrivato come l’ultima spiacevole notizia di una giornata costellata di infelici eventi e tristi notizie. La morte di uno, la depressione clinica di un altro, la miseria dei più. Ma al matrimonio siamo tutti ricchi. Io sono invitato. La prima cosa che mi chiedo è che cazzo mi hanno invitato a fare e soprattutto come gli è saltato in mente, non hanno capito che sono morto??? E poi dovrei fare il testimone…ma questi sono pazzi?

C’è stato un clamoroso boom di matrimoni quest’anno, non sanno proprio che cazzo fare questi deficienti. Si accoppiassero pure, firmassero i loro luridi contratti schifosi alla presenza di quel sindaco fantoccio e puttaniere mangiasoldi col suo gran culo sulla poltrona. Si allontanassero da me almeno.

I miei parenti sono dei grandissimi bastardi, alcuni talmente snob, presuntuosi, marci dentro e merde totali che fanno finta di non vedermi quando mi incontrano con aria sprezzante e di superiorità. Questi saranno gli invitati del cazzo che avremo alla festa. Ecco, io gli farei un buco in fronte e un altro in culo, invece no, dovrò essere li con la cravatta. In più gli invitati extra totalmente a me sconosciuti proveniente dalla Francia, dalla Germania e dalla fottutissima Svizzera. Quel paese che oltre gli orologi a cucù ha sfornato più meridionali tornati peggio di prima di qualunque altro.

Naturalmente un anno di rompimento di coglioni per i preparativi. “mi compri la macchina delle bolle di sapone? “ si come no, col cazzo, gli anelli nuziali e quant’altro. Scambiamoci finti regali, finti sorrisi e poi andatevene all’inferno.

La mattina del matrimonio sono tiratissimo, vestito come un manichino da quattro soldi. Sveglia alle cinque, sono ancora ubriaco. Mi butto nel primo bar che trovo, mi chiamano, mi sgridano, mi tirano per la giacca, mi fanno gli auguri, mi salutano, qualche vecchia stronza mi dà un pizzicotto sulla guancia e poi vengo scaraventato sull’altare vicino agli sposi.

Il prete dice le sue stronzate, io mi estraneo totalmente. Ho un conato di vomito. Cazzo mi sta uscendo proprio ora, sarà questo posto di merda, queste facce di cazzo, tutta questa situazione malata e patetica. Il prete dice –alzatevi figlioli …i vostri cuori….- e stronzate varie, io non mi alzo. Resto seduto. –C’è qualcosa che non va? – mi chiede la sposa . – Io vado al cesso a vomitare - . Un attimo di panico tra gli sposi e tra tutti, il prete sorride dal nervosismo, io vado nella sacrestia a pochi passi e mi infilo con la testa nel cesso. Torno totalmente sbeffeggiato da tutti e deriso. Dopo cinque minuti anche le pietre sapevano che ero un alcolizzato. Fuori dalla chiesa, a matrimonio fatto fioccano confetti e flash mentre io sto al bar.

Seconda parte : il pranzo. 350 invitati. Ci dirigiamo verso un ristorante-caserma a un’ora di macchina. Tutti legati sulle sedie come dei bambolotti, sequestrati. I convenevoli e le solite minchiate. Mi ubriaco come un cesso, bevo tutto il vino che ci servono. Vengo chiamato per fare un balletto al centro della sala. Mi alzo e vado al cesso a cacare. Torno e mi vado a sedere ubriaco fradicio. Mi alzo, barcollo, mi tolgo la giaccia sporca di vino, mi si avvicina mio padre : - Sei una vergogna, tutti ti ridono dietro - . – E ridete vaffanculoooooo! – dico appoggiandomi a una siepe che non mi mantiene e cado a terra. Tutti ridevano muti, non lo davano a vedere.

Devo scappare da questo matrimonio del cazzo : progetto una fuga come da un carcere ma è tutto inutile. Altre sei ore di commenti. Ritorno in macchina coi miei genitori e i genitori dello sposo. Il mio cervello riceveva tutte le loro critiche intanto pensavo a quando sarei tornato per i fatti miei.

Ecco qua, vi porto pure i cofanetti delle bomboniere maledette su e addio. Corro verso il primo bar.

C’erano due tipi dei soliti che frequentano la bettola. Occhi spenti al pavimento, tasche vuote, birra in mano. La cameriera sconsolata lava i cessi, io mi prendo un whisky. Fa pure freddo ma quasi quasi stanotte dormo qui sul marciapiede.

http://www.youtube.com/watch?v=Fm-OvHnVnvc

Il rumore del bar

Il rumore del bar

“Si riparte dai cunicoli,

da dove la strada

è finita.

Si annega in un lampo

Basta guardare fuori

Per scampo

Tra le dita.”

Eravamo nel tombino dell’inferno. Seduti a un tavolino opaco, orologi che segnavano le ore oscillando, le due o le tre di notte. Billy parlava in modo pesante, le sue parole cadevano dritte nel whisky. Era un uomo grasso e flaccido sui quarant’anni con la faccia grossa e brufolosa, pochi riccioli unti sul biondo scuro arruffati. Indossava una pelliccia unta anch’essa e dei blue jeans.

Katia stava seduta alla sua destra con un sorriso nevrotico di denti al tabacco su un rossetto spaccato e un fondo tinta forte. Aveva dei tacchi troppo alti su cui dondolava, un jeans stretto che le mostrava un culo ancora abbastanza attraente e un po’ sceso e un giubbotto di pelle cortissimo. Fumava ininterrottamente. Era una donna sfiorita anche lei sui quaranta che si lamentava di aver buttato la sua giovinezza e sperava di essere ancora abbastanza bella per trovare un uomo ricco che la facesse campare da regina.

Ero lì con loro perché lei quella sera aveva deciso di offrirmi da bere. Ci eravamo visti poco prima; era stata tutto il tempo a maledire quel suo uomo che, diceva, la trattava da puttana. Continuava a chiedermi : - Io sono una puttana!? Io sono una puttana !? Le puttane sono quelle che stanno con gli uomini soltanto per soldi! Non io! -. Era scesa di corsa dalla sua macchina e aveva deciso di ubriacarsi come suo solito, era finita in quel posto e aveva trovato me. Io volevo soltanto bere e stare in pace, come mio solito. Al quarto vodka tonic, credo, tornò il suo uomo scendendo traballando lento e sfatto dalla sua Alfa Romeo, Billy. I due si guardarono, lei gli sorrise, lui aveva la sua faccia grossa, grassa e strana fissa con uno sguardo indifferente.

Ci trovammo così parcheggiati in quell’ angolino senza bussola, come se non fosse stato niente e senza sapere il perché. Dall’altra parte del bar c’erano i ragazzi vestiti bene che commentavano le partite e facevano discorsi stupidi. Stavo meglio al mio tavolo in disparte dove non ero costretto nemmeno a parlare né a commentare niente. Era Billy che aveva preso il discorso, lei rideva soltanto e gli diceva di andare a pagare altro da bere per me e per lei. Billy forse per darsi l’aria del magnaccia andava a pagare tutto. Ero quasi ubriaco. Ma ogni volta che tornava al tavolino con i drink diceva che era l’ultimo e poi voleva andarsene, probabilmente voleva dare un segnale a Katy di andare a scopare. Katy invece ogni volta che lui andava a prendere da bere mi diceva : - Non ti preoccupare, io voglio te! – e rideva con le sue labbra folli e nevrotiche. Lui intanto tornava e blaterava qualcosa che io non ascoltavo bene, estraniato. Mi chiese qualcosa e io risposi soltanto sillabando : - Non è facile… - , e lui : -Lo sai una volta mio nonno a 90 anni mi disse soltanto questo quando gli chiesi come cazzo ci era arrivato a 90 anni, mi disse “non è facile…”. - . E lo disse con una certa enfasi che la cosa acquistava davvero un senso.

Non è facile trovare un bar dove ti lascino in pace. I bar che frequento io sono sempre sulla via del fallimento. Dopo un pò chiudono e mi lasciano orfano. Ma meglio i bar dei falliti, almeno quelli sanno di non esistere per nessuno, troppa gente altrove pensa di esistere sul serio e di contare qualcosa davvero. Meglio chi conosce poco e ha poca curiosità. Io sto sempre nei posti in cui le occasioni sono sprecate e aleggia nell’aria il pensiero : “lo farò nella prossima vita”.

Non mi importa molto dei grandi viaggi dei grandi sogni, delle grandi storie,delle grandi passioni. Mi sento più realizzato a chiudermi nel cesso di casa mia, fumare e scrivere tre o quattro poesie. Restare in mutande nella penombra, magari leggere due stronzate sul giornale, birra sul comodino. Farmi una sega. Cacare. Quello che c'è fuori non mi interessa.

Alla fine Billy dovette desistere perché Katy voleva continuare a bere con me. Sentivo come bruciava dentro quell’uomo con la sua bella macchina, il suo lavoro e i suoi soldi che tornava a casa da solo e si metteva in mutande con la testa nel frigo e poi davanti alla tv a farsi una sega. Prima di andarsene Katy gli fece pagare soltanto un altro giro di vodka tonic e poi lo salutò affettuosamente spiaccicandogli le labbra in faccia. Rimanemmo da soli al bancone. Tornò a chiedermi : - ma io ti sembro una puttana? Solo perché sono più grande di te, ma a me piacciono i giovani! - . E si mise sullo sgabello con le cosce aperte mostrandomi tutta la sua femminilità. Era riuscita a farmi venire l’intenzione di scoparmela ma ero quasi ubriaco, mi andava bene anche restare ancora lì. Continuammo a parlare di sesso e moralità e del fatto che lei non era una puttana. Mi riempiva di complimenti, mi diceva che ero bello, intelligente, simpatico, istruito. Pensai che chiunque ogni tanto aveva bisogno di sentirsi dire cose del genere da qualcuno, come terapia. Mentre discutevamo si fece largo proprio in mezzo il Maestro con l’aria di aver fretta e rivolto al cameriere ordinò: - un botti di Natale-. Diceva così quando voleva ordinare del vino. Sapeva che era uno schifo quello che gli versavano, allora come per prendersi gioco di sé lo chiamava con altri nomi, ad esempio “un rosso antico”. Il Maestro era identificato e conosciuto per il suo attaccamento allo strumento : era un suonatore di trombone, sui 50 anni, divorziato da una rumena. Viveva nella casa dei suoi genitori defunti in un vicolo vicino al bar. Ordinava sempre “bot-ti di na-ta-le” sillabando e scandendo bene. Spesso si spegneva e poi si riaccendeva, si addormentava sul bancone dopo qualche litro: era il mio interlocutore preferito di molte serate invernali. Certe sere trovavo solo lui come compagno per bere e tra un pezzo di Thelonius Monk e un “Botti di Natale” ci ubriacavamo. Da queste bevute ne derivò che organizzammo una serata in un piccolo centro sociale in paese. Lui al trombone, io alla chitarra, un altro al pianoforte. Jazz e “botti di natale”, il nostro paese era New Orleans; vino cotto in una pentola appoggiata su quattro listelli di legno messa sopra al fuoco di cinque o sei candeline. Nella sua ubriachezza e nella sua sottile follia riusciva sempre a mantenere una certà dignita. Era la dignità del musicista jazz mancato, che lo era diventato comunque, da qualche parte in qualche mondo suo, variopinto.

Un canticchiare “vai vai vu va vu vai vai…” accompagnava sempre il Maestro mentre usciva dal bar.

C’era anche una canadese che lavorava in zona che di tanto in tanto quando staccava veniva a bere lì. Mi era simpatica e parlava solo con me perché io ero l’unico del paese a saper parlare inglese e gli facevo da interprete. Ogni volta ordinava un Long island, un Negroni o un Manhattan, eppure l’avevo capito che nessuno da quelle parti li sapeva fare. Però continuava a chiederli perché doveva ricordare a tutti che lei non era una derelitta come noi.

La canadese si scolava il suo drink fatto male e io rimasi di nuovo solo con Katy. Iniziava a dirmi sempre più chiaramente che voleva fottere e io cambiavo discorso dirottandolo su un altro giro di vodka tonic offerto da lei.

Pensai : “E’ una puttana che a volte ti insegna che l’alcool in certe occasioni è meglio della fica”.

Ero ormai ubriaco, presi il mio ennesimo drink e me ne uscii fuori a fumare lasciandola sola e china sul bicchiere.

Fumavo e aspiravo anche la nebbia. Un ragazzo che sornione aveva assistito a tutta la scena le si avvicinò al banco, e gli chiese ad alta voce di andare a scopare. Katy ritornò nella paranoia da cui era uscita parlando con me, perse la calma ottenuta e rispose con una crisi isterica da ubriaca. Tornò il solito rumore del bar . L’avevano presa per una puttana.