sabato 30 ottobre 2010

Zanzare


Ho qualche malattia, ne sono certo. Penso che tra poco inizieranno a cadermi i denti, mi sveglio e sputo sangue.

Non riesco a trovare pace. Un jegermeister rintontito davanti al bancone con pallide figure melense che mi svolazzano attorno come le zanzare di casa mia in affitto da una nazista di 60 anni che sottomette il marito.

Ogni notte con la mia piccola e ristrettissima combriccola mi sono trasformato nel pagliaccio di turno di questa landa desolata, di questa fogna circense, fino ad essere diventato quello fisso, conosciuto da tutti come un personaggio.

Nessuno forse immagina quanto sono inquieto, quanto avrei bisogno di starmene da solo, più di quanto non lo sia ora. Vorrei andare alla ricerca di compagnia, doverla trovare in qualche bar notturno o in qualche scialba mattina universitaria anziché dovermela subire, dovermela ritrovare davanti sempre.

In ogni casa, in ogni posto che frequento ad un certo punto arrivano gli intrusi, gli scarafaggi. Esiste una socialità forzata che si impongono i miei compari, un vivere comune, o anche una vera e propria “comune” che per me rappresenta un incubo. Io sono sempre quello della brandina e della bottiglia di vino tra quattro mura, e un posacenere pieno, dei fogli di carta e buona musica.

Perché queste persone che ho intorno si sentono dei ragazzini a 30 anni? Io me ne sento già 80 addosso escludendo anche quelli che attualmente ho.

Le minchiate, i criceti nel cervello, le canne, parlare senza dire niente che non sia una cazzata, i bonghetti, i rasta, il reggae, i sobborghi di periferia meridionale. L’università : il cesso dove ci vanno tutti in fila, ma proprio tutti. Ad imparare cosa? Non lo sanno neanche. E’ un automatismo, ci si và e basta. Le serate d’ammasso, serate in cui ci si perde in quella squallida allegria di luci finte colorate e sorrisi di plastica televisivi.

Nessuno ci crede mai quando dico che sono di passaggio, che non sono come loro : uno stronzo che si impianta in un posto anonimo e non si schioda più, soddisfatto del proprio piccolo orticello di merda.

Un paese ce l’ho, anche se non è il mio, ma è il posto più instabile della terra: ci si deve buttare a tutti i costi dallo strapiombo, di notte. E quando scendi le montagne sembrano inquietanti ombre di giganti che tremano. Le vie boscose si chiudono lungono il percorso a poco a poco. Bisogna girarci intorno, girare attorno a quell’antenna attraversando vie impervie per uscirne.

Ecco perché ogni volta rispunta il mio taccuino alle quattro e mezza del mattino. I tarli nel cervello : maledetti pezzi di merda. Vedo troppe mosche, anch’io mi sento una mosca che viscida svolazza per andare a poggiarsi sugli escrementi di un cane. E mi sento bene solo quando bar il cervello non mi dice niente e quando il abr non mi dice niente e non mi conosce e non mi propone alcunché. Che pattumiera ‘sto cervello ! Dove andarlo a svuotare è il problema. Perché ognuno qui di queste mosche che mi ronzano intorno ha bisogno di essere ascoltato, di essere seguito, assecondato, accomodato. Non posso ascoltarli più da quando ho iniziato a parlare con me stesso dato che nessuno mi voleva sentire.

L’alienazione non è un male se è vero che ognuno di noi è una moltitudine. Così’ non mi spavento più e non rimango più perplesso se una sera entro nel cesso di un bar di terza categoria e trovo un tossico che caca sul pavimento. Un tanfo nauseabondo dove tutto fa schifo.

Gli ho detto – ehi quando cazzo esci da li dentro che devo pisciare? -. Mi risponde che ne ha ancora per molto rigirandosi nelle sue feci e nel suo vomito.

Sei strafatto di eroina!-

Piagnucolando risponde di si.

-E io piscio nel lavandino! –

Esco dal bagno e dico alla fila urinante – signori, signori, c’è un tossico incastrato nel gabinetto, buttatelo fuori voi - .

-Ecco cos’era quel tanfo orribile…- .

Non mi interessa nemmeno se la donna non vuole scopare. Va bene lo stesso, va bene. Un bacio e poi mi fai la faccia da stronza? Va bene! Addio! Quello che importa è che ho potuto fare una pisciata, fermandomi al distributore di benzina.

mercoledì 27 ottobre 2010

Il mio bar

Serve sempre un bar,

un bar che non ha niente da dirti,

esattamente come me.

E una casa

se non per il gusto di lasciarla.

Non c'è niente da fare nella vita,

esiste un vuoto freddo,

così la gente si inventa qualcosa:

chi fa i figli, chi si sposa, chi lavora

molto più del necessario.

Qui si gioca a carte:

pena di chi il successo l'ha agognato

e non l'ha mai avuto.

E le carte, tristi, risuonano

nel freddo loro odore acre

di luci al neon iniettate di zanzare.

Un quasi silenzio pesante

poi il rumoroso parlare di idioti

non molto distante.

Per me era accomodante,

ma il mio bar non ha muri nè prigioni

Non è libero nè felice

ma spalancato.

E' il bar di chi se l'è trovato.

Con tanti saluti



Non ci sono per nessuno,

nemmeno per me.

Tanti mi odiano

e io odio loro.

Trovo di stare più al sicuro

in queste gelide mura.

O camminando liberamente per le strade.

Sono rimasto a terra sull'autostrada,

con una gomma da cambiare.

Mi piove addosso,

non confido in qualcuno

per darmi una mano.

Mi stavo quasi ammazzando.

Sempre di corsa

da un posto all'altro

per affari di cui non mi frega un cazzo.

Questioni di denaro.

L'unico modo per spalare la merda

è mettersi i guanti.

L'unico linguaggio che la gente capisce

è il linguaggio del pagamento in contanti.

dove stare?

Vorrei essere altrove,
non so quando non so dove.
Ricordo vagamente cosa...
la trasformazione...costante...
ogni volta la stessa
ogni volta diversa.

La desolazione...

negli occhi di chi resta.

Non fa compagnia

non riscalda

non riluce.

Nel buio tutto tace.

Il bar dimenticato all'angolo

scampo di pochi fessi

imbarbariti dalla televisione

che trasmette le partite

e le facce felici

di gente ricca, drogata e depressa.

Non esistono stagioni,

non è estate, non è inverno, non è nemmeno primavera.

Qualcuno piange per piangere,

qualcuno pietrificato non sa come rimediare.

Dove stare?

martedì 17 agosto 2010

I tre

I tre



Avevano visto la loro situazione, la luna aveva parlato, quella era la loro fortuna. Ognuno usava dei meccanismi da codardo per sopravvivere. Uno ripeteva per ogni cosa - impossibile -, uno diceva a se stesso di non farcela e un altro si faceva prendere dalle palpitazioni con più stile.

Oltre a loro c'era uno che li comandava a bacchetta. Uno dormiva nell'immondizia, uno per terra in mezzo ai cartoni e uno per terra e in mutande.
Cosa non si tollera dopo aver tollerato la vita. Si può tollerare tutto dopo aver visto nella palla di vetro soltanto la propria immagine riflessa.

Non avevano nemmeno i soldi per andare al bar, ci provavano con ragazze indifferenti e fredde. Erano ragazze che andavano a scuola da un tossico e si innamoravano di lui.

Non devi mai dare importanza a una puttana. Vedi sfuggire la vita tra le dita, davanti agli occhi e non hai nemmeno gli occhi per piangere. E il tempo passa in fretta, la situazione presente per quanto stagnante e penosa sarà quella che un giorno si guarderà con nostalgia e con sottile commozione per la gioventù, sprecata ma andata via.

Infondo però sanno di essere degli eroi, perché hanno vissuto le vere disavventure della vita, e il loro sforzo immane per cose piccole e innocue è paragonabile a quelle di un uomo che è salito sopra alla luna.

Uno dei tre viveva lavorando in nero, venendo merce contraffatta al doppio del prezzo. Un altro si dava da fare nei servizi sociali. Un altro aveva un lavoro onesto ma non era in grado di farlo.

Intanto molti andavano in giro come lampadine fulminate. In questo paese ci si assuefa in fretta al pensionamento anticipato. E’ un pensionamento campando coi pochi spiccioli che gli passano i genitori, finchè ci sono.

Loro tre invece dovevano cercare di sopravvivere. Erano eroi perché erano quelli che lottavano.

Seppur sfigati, quando il momento era decisivo avevano lo sguardo di ghiaccio e il sangue freddo. E’ così solo quando non si ha niente da perdere.

Si ritrovarono tutti e tre per caso su una panchina una sera d’estate. Immobili. Alcuni sono esclusi dal mondo. Erano così rinunciatari che riuscivano a vedersi da fuori e si compativano, che arrivavano quasi a commuoversi.

“Chi l’avrebbe detto che proprio noi avremmo fatto questa fine? Non dovevamo essere noi a farla. Chi l’avrebbe detto che proprio noi saremmo rimasti qui, gli unici che avrebbero dovuto andarsene? Siamo tutti e tre imparentati, anzi, siamo tutti e tre la stessa persona! A volte nella vita sei un personaggio costruito dagli altri, a volte sei un personaggio involontario. Questa è solo la trama di un film e noi siamo le comparse del loro set ma i protagonisti in un mondo che va al rovescio! Tutto sommato rottami, ma anche i soli ad essere così schifosamente veri! “

Continuavano a parlare tutta la notte. Le loro voci mi martellavano il cervello, erano come tarli incessanti. Continuavano a parlare sulla panchina, sotto l’albero, per l’eternità.

Quelli che vedranno inevitabilmente sfumare i propri sogni e la propria gioventù in una bottiglia di vino. La vita com’è a Londra la vediamo, ma non possiamo sfiorarla. Ormai ci trattengono, per farci morire qua, per campare sulle spalle nostre! Chi è felice, d’altra parte, campa sempre sulle spalle di qualche disgraziato! A noi non interessa affatto di morire ma non ci spaventa minimamente. Se potessimo stasera, passeremmo tutta la serata tra droghe, alcool e donne in macchine decappottabili. Non siamo nemmeno meglio di loro, di quelli che si godono la vita. Certo , possiamo permetterci qualche campari gin al bar e passare queste serate a vuoto, fuori dal palcoscenico o girando in macchina senza trovare mai il posto giusto, dove siamo ben accetti. Ma ci avete mai pensato che nessuno vuole stare in casa con noi? Nemmeno noi tre andiamo d’accordo! Infatti viviamo in tre monolocali separati!

Lo sappiamo già, ma stasera mi và di parlare. E’ mai possibile che anche i ragazzini ormai ci prendono per il culo? Che ci tirano gli scherzi e i petardi sotto ai piedi? Siamo pensionati ma senza pensione! E’ una pensione che si chiama – questa è la tua sorte ! “

Poi ci fu un silenzio lungo, fatto di sguardi, di occhi lucidi, di rimpianti, di sensazioni amare.

Alcune persone sono state fottute direttamente da Dio, forse.

Quei tre mi assillavano da dieci anni. Un modo per fuggire dalla realtà era dare retta a quelle voci, meglio loro che quelle vere.

Quello che sapevo è che c’era odore di pioggia nell’aria, di foglie secche e di granturco, come se fosse settembre.

Ero appena stato sbattuto fuori dalla casa – vacanze che era stata organizzata da un’associazione, non potevo sopportare il mio livello di trasandatezza. Ci provavo spudoratamente con le ragazze, ero asociale, non mi divertivo.

Il padrone del mio monolocale mi aveva avvisato che avevo una settimana di tempo per fare le valigie e andarmene. Sarei ritornato a casa dai miei genitori, dove c’era anche mia sorella che si stava per sposare.

Avrei dovuto trovare in fretta un’altra stanza, la scelta non era molta ma infondo non avrebbe fatto alcuna differenza. Mi sarei svegliato ancora tardi con la puzza di non so cosa in giro e quando mi sarei guardato allo specchio avrei provato lo stesso ribrezzo di sempre.

Era pur sempre un’impresa da eroi trascinare avanti la propria carcassa.

martedì 3 agosto 2010

Senza le carte in regola


Non ho le carte in regola, come tutti gli altri. Non voglio prendere soldi per cerimonie insulse e di sapore medievale come i matrimoni, le feste di laurea e cazzate varie. Non mi interessano i complimenti e le pacche sulle spalle o i lavori attorno a dei parassiti con buste paga ridicole per risparmiare e fare dei mutui. Di me non se ne frega nessuno, solo ipocrisie residue. I miei genitori mi passano dei soldi che non mi servono per campare ma per ubriacarmi. Sono un pezzente. Delle mie celebrazioni non me ne frego niente nemmeno io. Il mio nome si riferisce a un santo che non è importante.

Il vero metro della pezzenteria è il cesso, e le zanzare. Mi spiego meglio : si è veramente poveri solo quando non si ha nemmeno il lusso di trovare il cesso libero per andare a cacare, e intanto animali strani e immondi ti rovinano la vita, ti danno fastidio dalla mattina alla sera.

Ecco che sotto i trent’anni dovrebbe scattare il campanello d’allarme, che è costituito da comandi dettati dalla morale pubblica che dicono sussurrandoti nel cervello : - una casa…una moglie…i figli…un lavoro…i mobili…come organizzare un matrimonio di lusso anche essendo poveri - . Pagare un prestito per vent’anni per organizzare un giorno di celebrazione cattolica e opprimente che te lo mette in culo a vita.

Immaturo. Sono anche immaturo ma marcio, un controsenso. Se fossi solo immaturo avrei il privilegio di essere ancora un frutto fresco, invece no. Sono una mela marcia. Le mele marce come me finiscono male, finiscono all’ospedale, finiscono in manicomio, finiscono sotto un ponte, si suicidano, muoiono di cirrosi epatica, muoiono in solitudine.

Io vivo in un monolocale cadente e squallido di Lancusi, nell’hinterland di Salerno e non trovo mai il cesso libero.

Dovrei prendere e fuggire, questi luoghi mi stanno stretti, la campania mi fa schifo, i miei genitori li odio.

Provo a partecipare a concorsi di tutti i generi senza vincere mai. Concorsi musicali, concorsi letterari, concorsi…concorsi…

Ho voglia di impiccarmi in questa stanza. Non ho voglia di uscire e di farmi vedere. Ho voglia di ubriacarmi, di spaccare queste maledette mura, di combinare un casino enorme.

Non ho voglia di lavorare senza guadagnare niente. Qui c’è tanto da lavorare, ma nessuno ti paga.

C’è che il lavoro e una cosa e la fatica è un’altra. E c’è anche che in questa epoca sfortunata e di trapasso in cui mi è toccato vivere c’è una svolta fascista in atto. Parole come “tolleranza zero” rivolte ai disoccupati fannulloni e mammoni, agli immigrati stupratori e assassini, ai terroni, ai gay, ai comunisti pessimisti, scansafatiche, accattoni e drogati. E massima clemenza per gli ultramiliardari e i politici (mafiosi).

La mia arma adesso è la scrittura, adesso è la chitarra. Suono e scrivo per combattere, non per sopravvivere. Anche perché saranno questi i motivi che mi porteranno alla tomba insieme all’alcool, questo grande compagno di vita, l’unica entità terrestre che mi dà sollievo, perché è come una puttana dal cuore d’oro: tu sai che è squallida e non ha niente, ma è l’unica cosa reale che c’è, libera da veli e pesanti strati di ipocrisia e superificialità.

Bruciano i libri, bruciano le biblioteche, bruciano i carburanti, bruciano le scottature, i livori, i rancori, e non bruciano i quirinali e non bruciano i vaticani.

La stazione è lì, il bar è lì, sempre lì che mi guarda. Mi sta rovinando, mi prende il tempo. Vado verso il bar.

lunedì 26 luglio 2010

TORNARE A CASA

Si era appena laureato Domenico. Organizzammo una festa in un boschetto di Penta. Il pomeriggio fu speso a suonare blues psichedelici con le chitarre e tra i soliti aperitivi che duravano quattro ore.

Pensavamo a fare la brace per le salsicce ma ancora prima alle chitarre e al vino. Era un bel boschetto in cima ad un fiume, tanta bella gente, tutti amici, tutti infondo estranei, due o tre ragazze anche interessanti. Qualche gran puttana che arrivava in ritardo o non arrivava affatto.

Vino e pacche sulle spalle, e si iniziò a suonare. Una ragazza mi si avvicinò e iniziò a parlarmi di questioni riguardanti l’università cui poco riuscivo a badare. Intanto qualcuno mi chiamò – Ehi, Capone, vienici a suonare qualcosa!! Una delle tue !! -, voleva dessi un po’ di spettacolo. Va bene, mi sedetti sulla panchina di legno con recinzione, di fianco alla scritta COMUNITA’ MONTANA impressa su un muro di cemento. Dovetti ricordarmi il mio repertorio velocemente, odiavo suonare la chitarra a richiesta. Ciascuno mi chiedeva di fare una canzone diversa, parte delle quali a me ignote. Propesi per suonare “Il ballo di San Vito”. La chitarra iniziò a vibrare e gli ubriachi attorno cantavano, Marco prese a cantare barcollando e appoggiandosi allo steccato, d’un tratto si sentì una botta, la staccionata si spaccò e Marco scomparì precipitando, inghiottito giù nel burrone del fiume a culo all’insù. Feci smettere di vibrare la chitarra. Gli occhi di tutti quanti erano diretti al fiume, c’era chi se lo immaginava già spappolato con le ossa rotte su qualche roccia, invece era caduto su un muretto di cemento armato ad appena mezzo metro sotto. Si rialzò subito in piedi con un sorriso ebete, e si dette una spolverata. Ripresi subito a suonare e via, era già pronto un bicchiere di vino nuovo per Marco. Era il segno del fatto che eravamo un branco di coglioni. Alcune ragazze assistevano infastidite alla scena. Finì il pezzo, e riprese da capo. Avevano tutte voglia di scopare ma non erano disposte a darla via per un ubriaco o per un idiota.

Una mi chiese se avessi paura di vomitare, io le risposi che la mia unica paura era legata al fatto che gli sbirri mi ritirassero la patente, non stavo bevendo nemmeno più del solito tutto sommato.

Era verso l’una quando le luci dei lampioni si spensero e ci ritrovammo al buio. Il festeggiato si mise in piedi sul tavolo e urlò:

Tra un po’ arriva il sindaco e ci dice che siamo la rovina di questa città! Che schifo! -.

Era una battuta ma anche una verità tragicomica. I tossici, gli ubriachi, la gente della notte deve soccombere per forza, in un modo o nell’altro, per mano della gente per bene che produce consuma e ha voglia di lavorare.

Si sparpagliarono tutti in fretta, come cacciati fuori dalle autorità e iniziarono ad andare via. Caricai l’immondizia nella mia macchina e insieme a lei salìrono a bordo Marco, Domenico e Laura, la destinazione era la prima bettola aperta per continuare ad ubriacarsi.

Ho la memoria corta per le serate ubriache, ma ricordo che guidando in un modo o nell’altro arrivammo al bar di un noto pezzo di merda della zona, a Mercato San Severino. Ci fermammo prima lungo una piazzola di sosta e scaricammo tutta l’immondizia sotto il segnale –Divieto di scarico rifiuti -, e Marco tirò anche una pisciata. Arrivati davanti al bar, Marco scese di scatto e diventò irascibile, mi arrivò un pugno nello stomaco, io gliene diedi al volo uno sul braccio. Non aveva senso, così smettemmo subito.

Entrati tutti nel bar mi defilai, mi aggrappai distrutto e sferrai un cazzotto sul bancone. Si tornava sempre al bar, era un dolce ritorno a casa tornare in una stupida bettola di periferia.

-Ehi tu, smettila subito ! – Si avvicinò a me un ciccione, alto due metri, con una catena d’oro al collo, maglietta nera aderente, abbronzato e coi capelli neri rasati.

-Che c’è che non và amico? –

-I pugni sul bancone, qui c’è gente che lavora, abbi rispetto! .-

- Certo…certo…io rispetto chi lavora…- e mi uscì un rutto, che doveva puzzare abbastanza.

-Pagliacci, buffoni, tossici di merda….-.

Fu lì che entrò in scena di nuovo Marco : - Ma che cazzo volete da noi, sono le bettole come le vostre che ci riducono così!! Voi ci vendete l’alcool e noi diventiamo degli alcolizzati! .-

- E smettila Marco altrimenti qui non ci fanno bere più! -. Lo portai fuori, fumiamoci una sigaretta!

–Da questo bar ci hanno cacciato fuori già tre volte ! –

-Si, si…ma sono amici miei…li conosco da una vita…vedrai…vedrai che ci fanno bere –

-Certo… come no! Col cazzo!-

Rientrai composto nel bar. Mi detti finanche un’aggiustatina alla camicia sporca di vino e chiesi cortesemente alla cassa un campari con gin.

-No..no…per voi solo caffè o cappuccino! –

Io replicai : – un campari con gin – pensavo non avesse capito bene.

-Per voi solo caffè o cappuccino, non c’è altro! – ribattè ad alta voce. –Andatevene in un altro bar, anzi! -.

-Ok, certo, vado in un altro bar, sai quanti ce ne stanno, mica ci state solo voi, vado in un altro schifo di bar !!! –

Uscii fuori urlando agli altri che mi aspettavano fumando : - Ragazzi andiamocene in un altro bar! Andiamo in un bar normale, dove danno da bere ai clienti!!! .

Si sentì un rumore di porta aperta velocemente, dall’uscio spuntare il ciccione accompagnato da un tipo più basso e tarchiato - Uè! Mo basta, venite qua! -.

Mi sentii solo prendere per il collo , ricevere un forte colpo dietro alla nuca, poi due schiaffi, infine un terzo prendermi per un braccio e un altro colpirmi alla schiena col bastone. – Ora, tu, fottuto drogato, entri nel bar e stai buono fino a che non arriva la polizia ! –

-Manco per il cazzo! Non ci penso nemmeno! .- Mi scaraventarono a terra, riuscii a svincolarmi mentre iniziarono a percuotere Marco, o Antonio o Michele, o uno degli altri che erano arrivati poco prima. Strisciai a terra sul marciapiede sanguinando da un orecchio, mi misi a correre verso un vicolo fino a che non trovai un posto sicuro, vicino a un tombino. Restai lì a fumarmi il tabacco. Pensavo al fatto che non volevo farmi ritirare la patente e arrestare da due imbecilli di poliziotti per colpa di un campari-gin! Tornai calmo, era passata circa mezz’ora e decisi di tornare alla macchina. Nello spiazzale del bar c’erano solo Marco, Domenico e Laura, gli altri erano dentro a fare a botte.

-Io prendo la macchina e me ne vado, chi vuole venire? –

-Io resto qua!! Non tentare di smuovermi! – urlò Marco.

-E restaci, chi se ne frega! – Domenico e Laura invece salirono. Salimmo a bordo, misi in moto ma Domenico voleva recuperare Marco. – Porca miseria…va bene, ma piglialo a schiaffi subito e portalo dentro - . Agivo come il poliziotto di me stesso. In quel periodo l’importante era tornare sano e salvo a casa ogni sera, e non mi fregava d’ altro, anche a costo di dover pestare qualcuno. Li vidi tornare dopo cinque minuti, Marco col sangue dal naso entrò per primo in macchina, piangendo e disperandosi : - ma perché??...perchè???-.

-Perché cosa?? Andiamocene e vaffanculo!!! -.

-Capò, Marco non riesce a sopportare il peso delle ingiustizie, tu si – disse Domenico.

Le ingiustizie, io ci ero abituato, ci ero nato, ci ero cresciuto, pasciuto ed ero già anche rimasto fottuto.

Tornammo alla base , nel barrio che poi così tanto barrio non era. Domenico e Laura se ne andarono a scopare a casa mia, semivuota per l’immimente sfratto, io e Marco trovammo invece un panificio aperto. Era una stanzetta dove quattro uomini facevano il pane, e alle cinque del mattino si mettevano in viaggio per portarlo in alcune panetterie di Salerno. Lì era un posto tranquillo, eravamo solamente noi a non esserlo. Mentre entravamo vidi Marco inciampare e cadermi addosso trascinandomi verso il pavimento, fortuna che c’era un sacco di farina sul quale atterrammo morbidi.

Ci guardammo in faccia, avevamo delle facce tremende, poi arrivò qualcuno che disse: -Siete proprio dei tipi da fumetti uagliù – . Era ‘Mbogie che era appena entrato nel panificio per farsi fare una bruschetta. Uno degli uomini che lavorava prese un secchio pieno di salsa di pomodoro, qualche mozzarella dal frigo e iniziò a prepararla. La presi anche io, ottima. Pane fresco di prima mattina su lividi lungo tutto il corpo e con lo stomaco e la mente ammaccati e offuscati dall’alcool. Presi anche un cartone di birra dal frigorifero, detti all’uomo 7 euro e uscimmo fuori. Il panettiere ci seguì, ma no, stavolta non ci volevano arrestare. Rimanemmo lì fino alle cinque e mezza a parlare di quanto era pieno di gente schifosa il mondo e del fatto che gli avevano appena bucato una ruota del furgone. Quei discorsi a cui eravamo avvezzi nella panetteria di Penta, mangiando una bruschetta.

Il proprietario del panificio si chiamava Giovanni, ci disse : -Ragazzi io tra poco devo andare a portare il pane a Salerno - .

-Ci troviamo perfettamente con gli orari, per questo mi piace questo posto, perché gode del tempismo necessario e vive di notte.-

Prima che partissero li aiutai anche a cambiare la ruota. – Vedete, ragazzi, è pieno di gente di merda…un giorno tocco a voi e un altro giorno pure a noi…statev’ bbuon’ -.

Io e Marco rimanemmo ancora là, a guardare un albero attraverso il quale si vedeva il cielo e mi chiedevo perché se infondo l’albero e il cielo non avevano niente che non andasse ed erano perfetti, non appena calassi lo sguardo di 90 gradi dovessi vedere un continuo luridume.

Alla fine ci decidemmo ad andarcene – Rimaniamo che andiamo a prenderci un ultimo caffè al bar sotto casa mia e ci salutiamo –

-Ok- rispose Marco.

E non ci vedemmo più. Forse il mio compagnò finì col motorino contro qualche palo.

Tornai a casa, salii le scale, entrai nella mia stanza adiacente a quella dove stavano scopando e mi buttai sul letto: era scomodo. Mi feci cadere a terra dal letto a peso morto e dormii sul pavimento, polveroso, fresco.

domenica 30 maggio 2010

Cairano

Sulla rupe di Cairano c’è un vento fortissimo e continuo. Vento da tutti i lati.
Il paese da lontano è una mezzaluna, conficcata sui campi di grano.
Oggi ci sono salito sopra sotto un sole pieno che illuminava in ogni direzione.
300 abitanti. Anzi 301, perché è appena nata una bambina.
Ho parlato con due anziani.
Uno era il proprietario del Bar – Mini Market – Tabacchi Arace. Il locale aveva un odore stantio di birra e di carte da gioco e un ventilatore che pendeva dal soffitto. Si vendeva solo ciò che occorreva, niente di più e niente di meno. Un tempo il signor Arace serviva solo caffè fatto con la moka, che si doveva prendere per forza in compagnia:
- Un caffè, perfavore! - ;
- Aspetta che tra mezz'ora arriva Vito e facciamo la macchinetta grande! -.
Nella calura pomeridiana, un anziano bontempone in pantofole beveva una birra, il barista invece faceva battute e metteva di buon umore e mi diceva :
-Qua stiamo tranquilli, possiamo lasciare la porta aperta...-
Mi raccontava che da giovane era stato a fare il barista a Sorrento, ad Amalfi, a Praia a mare e che ora se n’era tornato al paese, per passare la vecchiaia nella massima serenità. Mi diceva come vedeva i forestieri che ogni tanto venivano a Cairano incuriositi dal posto.
-Quando viene qualcuno e mi dice : - Ma come fate a campare qua sopra, in questo paese? – Io gli rispondo . –Ma non ci rompere…le uova nel paniere! Qui ci può stare solo gente tranquilla! - .
Così era, e lo sapevo bene; e mi ha offerto una birra.
Voto 10 al Bar-Mini Market Arace e al proprietario.

Uscendo dal bar, ho attraversato la via del paese dove abita Zi Carminuccio, lo conobbi una sera che c’era una festa e mi chiese di andare a trovarlo più spesso, e così stavo per mantenere la promessa.
Camminava con un coppolone in testa sotto al sole, l’ho salutato, non si ricordava di me. Ha una ottantina d’anni, e vivendo lì non si è incattivito e avvilito come i vecchi che stanno in città, ma ha conservato un sorriso proprio della gioventù, la vecchiaia gli si legge sul volto serenamente, e fa tenerezza.
Nonostante non sapesse più chi ero, era felicissimo di parlare con me e mi diceva che alla sua età era ancora un buon amatore. L’ho lasciato subito perché sapevo che avrebbe voluto trattenermi per troppo tempo.
Io infatti ero uno di quelli legati al tempo, all’ansia che ne viene, ed ero un elemento discordante. Infondo ero andato solo a rubarmi un po’ di silenzio e di felicità, e nel frattempo mi era anche venuta voglia di comprarmi una coppola nuova.

giovedì 27 maggio 2010

Sulle pale eoliche

Non conosco il vostro Cristo
e rifiuto l'idea della mia anima pezzente.
La mia rabbia, da sola,
potrebbe alimentare il sistema d'illuminazione di questa città di merda.
Giro a vuoto per questa terra a sud di niente,
m'infilo in una pala eolica,
il vento si illumina di fuoco.

Siamo tutti presi da cose senza senso,
in quest'età crepuscolare.
L'arte è borghese
e nei salotti intanto
continuano a parlare.
Non si ambisce a diventare scrittori,
si ambisce al massimo a una scopata.

E alcuni si sentono in competizione con me,
io, di norma, li lascio fottersi,
fino all'ultimo.

martedì 25 maggio 2010

Nuovi e vecchi vocabolari

Poco fa pensavo a quanto si sono imborghesiti i miei amici, a come il loro vocabolario si è tramutato in : soldi, affari, business, spiagge, vacanze a Capri, macchine, speranze di matrimonio, essere stimati in paese, fare cose “normali”.
Da anarchici sognatori di un tempo a piccoli “berluschini” che non vedranno mai la luce di diventare ricchi.
La piccola borghesia : l’incubo peggiore in cui si potesse piombare.
E’ l’anima stessa che inizia a cambiare, dopo che è cambiato il culo, avendolo venduto al mercato.
Non si fa niente se non per soldi. Ogni piccolo gesto della vita quotidiana, finanche una sega, è finalizzata esclusivamente a scopi di lucro, a logiche di guadagno economico, di ladrocinio da pollaio. Un gozzovigliare continuo ed inesorabile in mezzo alla miseria, uno spilluzzicare carne da vicino all’osso. Nessuna azione della vita quotidiana si fa per la spiritualità e neppure per edonismo, neppure per il piacere di farla e basta. Nemmeno più farsi una puttana.
Siamo entrati in questo incubo e non sappiamo più come uscirne, nemmeno il fascismo era riuscito a fare tanto.
Sono rimasto solo definitivamente, sono diventato come “lu lupu”, e forse, meno male. E’ la migliore occasione della mia vita.
Avevo proposto di tutto, avevo tentato di tutto, ma i miei progetti sociali avevano un grave difetto: non prevedevano alcun guadagno in termini economici. E’ così che sono rimasto al di fuori.
Un giorno mi venne in mente che oltre un sentiero tra le montagne dei picentini, abitava un uomo, detto “lu lupu”, e mi ero deciso ad andare a trovarlo, nella sua casa-capanna sotto i castagni. Era chiamato così perché detestava i rapporti con la società, non scendeva dalle montagne da anni, voleva stare solo, evitava le persone.
Aveva un orto dove coltivava di tutto, e una zona adibita alla legna. Poi in una zona nascosta dietro i castagni, una piccola piantagione di canapa, che gli serviva per fare tessuti, oltre che per fumarsela a fine giornata, al calar del sole e sbattersene del mondo. Aveva barba nera incolta, avevo un’immagine di lui mentre sbucciava patate con un coltello a serramanico in un contenitore di ferro, poi le metteva a cuocere e si fumava una canna, addormentandosi sulla brandina sfondata e bevendo vino.
Pensai che era di sicuro più felice di me, e infondo, chi non lo era, così decisi che non era il caso di andare a fargli visita, perché io non ero un giornalista e lui, dal canto suo, avrebbe fatto bene a mandarmi al diavolo.
Lu lupu se ne stava lì, adagiato sul letto con le mani sporche di terra, nemmeno il bisogno di lavarsi più del dovuto o di cambiare vestiti. Nemmeno un televisore o un cellulare, nessuna sorta di appuntamenti, nessuna fretta.
Ecco chi erano i veri anarchici, quelli come lu lupu. Non i giovani rampanti alla moda, che predicano trasgressione, che seguono lo stile di vita della disobbedienza, che vogliono farsi piacere dalle ragazzine. Nemmeno io infondo ero del tutto anarchico, ero intrappolato anch’io, incasellato nel posto dello scaffale degli esclusi, ma facevo pur sempre parte di quello scaffale.
Ero un fottuto presuntuoso, forse. Pretendevo di fare in qualche modo cultura in un mondo che ormai non era affatto interessato all’argomento. I locali continuavano a pagare 200 euro a serata dei penosi dj e non davano mai un cent per i reading e per la musica buona. Per quello mi stavano abbandonando tutti, perché ciò che volevo fare io non aveva vantaggi economici. Ma io continuavo a farlo.
Una sera il gestore del locale non ci voleva pagare, diceva che la serata era andata male e che il mio linguaggio era stato troppo sconcio. Il resto della band riuscì a farsi dare un rimborso, io nemmeno quello. Era solo l’ennesima serata che stava precipitando in alcool, in autodistruzione, a cui sarebbero seguiti crampi allo stomaco, dolori lancinanti ( i soliti ), e sputi di sangue.
Quando uscii fuori dal locale la ruota della mia Fiat Panda era a terra, lo era anche quella di scorta. Non ci fu verso per ripartire e andarmene sulle quattro ruote. Sarei dovuto andarmene con le mie gambe. Mi incamminai perduto, barcollante. Trovai per strada un piccolo spazio di terra dove vomitare e accasciarmi per un momento, e non riuscii più ad alzarmi. I forti dolori allo stomaco iniziavano ad insistere, mi distesi sulla fresca erba ancora bagnata e mi distesi del tutto, avevo trovato il mio giaciglio mortuario. Era un piccolo prato di Bolano, pieno di cartacce e buste di plastica e detriti, ma mi sembrava una prateria.
Mi svegliò un camion che raccoglieva la spazzatura alle 7 e mezza di mattina. Pensai che avrebbe anche potuto prendermi.
Tra tutte le cose che avrei potuto/dovuto pensare, pensai a cambiare la ruota della macchina.
Mi misi a fare l’autostop sotto la cabina di una fermata degli autobus. La gente che passava aveva in macchina sempre dei grossi pacchi, appena acquistati probabilmente all’Ikea e andava di fretta. Tutti andavano di fretta. Stendevo il pollice lungo la strada per farli fermare ma non voltavano nemmeno lo sguardo. Nessuno in quel posto di merda ti dava un passaggio. Erano cattivi e spietati, avevano l’aria di schifo nei miei confronti. Si chiedevano come mai quel pazzo era rimasto a piedi, perché magari era un drogato, e mentre lo pensavano erano ancora più orgogliosi di avere una macchina, un lavoro e una povera donna che li aspettava a casa.
Rinunciai in fretta a cercare il passaggio, mi misi addosso il mio corpo e me lo trascinai per la strada, diretto verso la macchina. Qualche chilometro, e andai a prendere la ruota di scorta nel posto dove avevo lasciato la macchina la sera prima.
La presi abbracciandola con due mani e la portai a gonfiare da un benzinaio. Volle un euro per il servizio. Poi ancora qualche km per tornare indietro con la gomma gonfiata. La sostituii, imbrattato di grasso, mentre si metteva a piovere.

lunedì 17 maggio 2010

La gente non merita

Non c’è altro modo per scrivere se non alienandosi del tutto. Scrivere nei momenti meno opportuni, scrivere quando non dovresti, quando dovresti fare altro, o per contemplare l’oblio dei tuoi luoghi asettici.
Si scrive solo per i soldi, o forse no. Si parla con una ragazza solo per scoparsela, o forse no.
Non si può pretendere nulla più di quello che hai, di un bicchiere di vino e di un giubbotto di pelle per ripararti dal freddo, e condividere ciò, a volte sarebbe bello.
Una sera mi avvicinai a una ragazza più giovane di me e le chiesi se voleva qualcosa da bere. Mi rispose secca di no. Dato che ero ubriaco riuscii anche ad insistere. Lei restò impassibile per tutto il tempo e intanto guardava un tipo seduto vicino al bancone. Io le chiesi cosa c’era che non andava con me e mi rispose : - Perché sei il più brutto del locale! – e intanto continuava a guardare il tipo. In effetti ero nel posto sbagliato, sentivo in sottofondo una musica latino-americana. Mi sentii d’un tratto inadatto a quel bar e me ne andai come un cane bastonato. La lasciai che si mise a ballare quel ritmo latino idiota, e sorrideva.
Fu proprio quella stessa sera che chiamai Debora. Era l’ossessione della fica. Debora non rispondeva. Debora era più fredda di un ghiacciolo. Mi risuonavano solo le sue parole in testa : - Non voglio illuderti ! -.
A quel punto lasciai cadere il telefono per terra e ricominciai a bere, dopo qualche giorno di astinenza. Si beveva perché non si scopava. Quando sono lucido sono depresso, quando sono ubriaco sono contento di essere depresso. E non vedo gli altri.
(Quando bevo torno a sperare perché non sono abbastanza lucido per capire. Deliro liberamente come un’aquila volando sopra al cielo, planando leggero, vedendo posti che non potrei mai vedere. Ma capita anche che ti si avvicina un tipo sul metro e novanta, infastidito dalla tua scarsa felicità e ti dice – Bhe qual è il problema ? -. In questa periferia del mondo, del sud, nell’hinterland della periferia, tra puzza di pelli e di scarichi industriali. Io gli rispondo : - stai calmo amico, qui siamo tutti nella stessa barca, anzi nello stesso hotel-. Un fottuto hotel, una fottuta stanza asettica e troppo pulita, ed è molto facile uscirne, cosa credevi? Questo non è l’hotel California, quando finisci i soldi ti sbattono fuori a calci in culo - .
Un luogo di scampo, in realtà, non esiste. Esiste una dimensione infernale sulla terra e solo sulla terra. La solitudine esiste, anche al di fuori dei reality show. La disperazione è ciclica e in quanto tale ritorna sempre, e io a questo ci sono avvezzo. Scrivo solo perché forse un giorno qualcuno leggerà queste cose, e se non sarà così, dovrà andare bene lo stesso.
A volte mi consola un po’ il fatto che la gente ipocrita, falsa, ladra, senza questo minimo di onestà un giorno dovrà pagare il conto, trovarsi di fronte alla realtà e mettersi un cappio al collo prima di me ).
Ognuno traffica per un suo interesse che difficilmente puoi capire e di conseguenza mi viene a mancare la forza di alzarmi dallo sgabello e di abbassare il gomito.
Alcune persone godono del fatto che stai male, altre cercano di usarti, altre di fare in modo che le guardi. Altre si sentono in competizione con me, io di norma, le lascio fottersi.
La follia di lottare contro qualcuno non mi può interessare. E la follia di lottare per questa società crepuscolare, avida, decadente, malsana, neanche. Mi limito al mio limite. La gent

IL BAR DELL'AUTOSTRADA

Voglio stare nell’anonimato. Nel bar notturno, nel bar anonimo emarginato. Nei bar che non vanno di moda, e bere. Voglio vedere i camion parcheggiati fuori, e bere un drink anonimo. Non voglio la mia identità per ora, quella che potrebbe esistere tra gente stabile, che abita il posto, e che non si schioda mai. Voglio stare qui, in questo bar sull’autostrada, tra la gente che passa, che non resta, che è fuori luogo. Conto gli spiccioli che ho in tasca e credo che sarebbe fin troppo bello e accomodante, confortevole e via di scampo, affittare una stanza nell’hotel al piano di sopra e restare a dormire lì, con le luci dei camion che si intravedono attraverso le tendine pallide colorate.Invece lascio da parte questo pensiero e mi compro un pacchetto di sigari a poco prezzo, ed esco fuori. Fa freddo e c’è la nebbia, le luci sono ovattate, mi sento un lupo cacciato fuori dal branco, un clandestino. Il sigaro si brucia, il fumo si espande e si mischia alla nebbia.E’ sabato sera, una pessima serata, buona per gente insensata che va a ballare e fa finta di divertirsi, o peggio ancora, si diverte davvero. Ognuno sta nel suo branco davanti ad un bar. Si dividono così tra queste cupe valli a ridosso dei monti.Non ho nessun motivo per unirmi a loro, voglio solo bere, è più forte di me e mi ero anche promesso di smettere, ma non riesco ad affrontare la vita in altro modo.Sono una menzogna vivente, la mia vita è una menzogna. L’unico modo per non mentire è starsene da soli.

Riprendo il mio giro in macchina coi fari antinebbia e i segnali stradali si susseguono, inerti, come se volessero fuorviarti, indicarti ancora una volta la strada sbagliata. Il mio giro è infinito e mi fa compagnia solo la spia rossa che indica che sta finendo la benzina, lampeggiando. Passo sopra un ponte, per vie di campagna, ruvide, franose, anche pittoresche se ci si sforza.Il segnale che si vede più spesso è quello che indica pericolo, e mi mette calma: non sono il solo ad accorgermene. E’ da più di un’ora che giro ed è il tempo necessario per capire che qui si gira in tondo, e non si arriva da nessuna parte. Cosa fare? Bere! Non appena la gente del sabato sera se ne sarà andata.Sono in una stazione, e nemmeno me n’ero accorto, costa stavo aspettando? Il treno non passa di qui da più di vent’anni.

sabato 8 maggio 2010

Piove merda

Mi svegliai la mattina, pisciai, bevvi un bicchiere di orzo freddo, scesi giù dalle scale e andai a prendere la macchina. Era diventata marrone. Aveva piovuto per tutta la notte, ed aveva piovuto ceneri di rifiuti industriali, quelli che respiravamo tutti i giorni. Merda dal cielo. Ma il cielo se ne stava li per i fatti suoi fino a che qualcuno non è andato a importunarlo.Entrai in macchina e stesi un po’ il sedile, mi dava fastidio la postura di quella macchina, troppo stretta.Avevo solo avuto un piccolo diverbio con una persona con cui dividevo la casa, quel cacatoio. Si erano spaccati gli oggetti, erano volate madonne e rosari e i vicini bigotti e coglioni avevano chiamato i carabinieri. Ma ero tutto intero.Avevo preso la macchina perché volevo andare da qualche parte, ma non sapevo dove. Non c’era un posto che mi piaceva, la gente la detestavo tutta, e tutte le regioni e le province d’Italia le odiavo, eccetto l’irpinia e la sardegna.L’unico posto dove potevo andare a perdermi era il supermercato, il posto più squallido in assoluto. Parcheggiai in terza fila ed entrai in quello più vicino. Mi misi a girare per i corridoi, diretto verso l’angolo degli alcolici. Comprai una buona bottiglia di vino rosso, a prezzo buono, un Montepulciano d’Abruzzo, e mi diressi verso la cassa. La signorina che faceva il conto alla gente in coda mi guardò con uno sguardo robotico, mi diede lo scontrino, si prese i soldi e mi liquidò. Tornai immediatamente a casa e mi stesi sul letto. L’aria fuori era cupa. Il mondo era una fabbrica di sogni infranti, la fabbrica degli aborti, delle piogge acide e nere. Non si poteva scappare, ecco perché ero tornato nella mia stanza a rinchiudermi. Avevo il vino vicino al letto e le canzoni di Vinicio Capossela, Elliot Smith e Jeff Buckley che giravano per la stanza. Era poco, era niente, ma mi bastava.Fuori il cielo si confondeva con l’asfalto, e con le case era un tutt’uno di grigiore infernale, chissà dov’era finito Dio. Non c’era nessun motivo per alzarmi dal letto, nessun motivo per spendere il tempo in altro modo : scommesse, giochi da tavolo, partite di calcio, donne stupide, chiacchierate inconcludenti, videogiochi, cellulari, macchine, vestiti, cene…o cazzate simili.L’aria era vuota, la pioggerellina era sporca e quei cessi…quei cessi… erano sporchi. Quei rifiuti che leggevi negli occhi altrui, l’ennesimo voto contrario. Il mondo non girava per il mio verso e nemmeno per il verso giusto. Era un continuo e perenne riciclarsi di merda, che pioveva dal cielo ed entrava nei nostri discorsi.Quello che pensavo e mi ripetevo era : qui non c'è nessuno a parte me....Non c'è nessuno, non c'è nessuno, nessuno, nessuno, nessuno nessuno, nessuno a parte me. Qui non c'è nessuno, nessuno...Ero solo.Avevo solo una chiamata da fare a disposizione, e la chiamai. Era a letto pure lei perché stava male. Eravamo in due. Per qualche minuto mi sentii bene. L’oscurità della mia stanza e qualcuno con cui parlare a telefono,almeno.Quando decisi di alzarmi fu perché dovevo andare in un locale a concordare quando avrei dovuto fare la serata del reading “vita da bar”. Arrivai velocemente da Gino, scrostandomi di dosso i pensieri del mio letto, della mia stanza, del mio cranio. Ci mettemmo d’accordo e il pagamento era esiguo come sempre: erano giusto i soldi per ubriacarmi quella sera. Ma si continuava lo stesso a fare serate, nonostante non ci guadagnassi niente : cosa non si faceva per l’arte.Mi estraniai ancora, di nuovo in macchina , l’unico luogo in cui potevo finalmente riordinare i miei pensieri. Troppi! Che mi scoppiasse il cranio! Un cd di Mark Lanegan and the Soulsavers “Kingdom of rain”.Le strade erano piene di tamarri, di mezze checche esaurite, di buffoni di periferia, di idioti, di menomati…Tristi i loro ritrovi con luci da discoteca, e le loro ragazze stupide azzuffarsi come delle galline per qualsiasi cosa.Avevo un altro numero di telefono, e lo utilizzai.Tornando a casa mi fermai in un bar. Andai in quello dove non c’era nessuno. Quello affollato lo scartai a prescindere : era un ritrovo di ragazze che stavano lì solo per farsi guardare, di piccolo borghesi, palloni gonfiati, chi urlava per qualcosa, chi inneggiava a qualcos’altro, chi beveva e si vantava di bere, e quelli erano i peggiori. Anni prima avevo iniziato a capire chi ero io: quello che sta messo lì e non ti parlano, quello che tutto osserva e mai niente cambia, quello che continua a guidare da solo. Quello che sta lì per sè, quello relegato, costretto a guardare, costretto a vagabondare.Due, tre, quattro campari-gin por favor. I soldi erano contati e ben spesi. Il locale stava chiudendo, le cameriere pulivano a terra, raccoglievano le schifezze che i loro clienti gli avevano lasciato. Bevevo nell’angolo, per i fatti miei e guardavo solo il bicchiere e il bancone, curvo.Simbolo della surrealtà, arrivò una macchina che si parcheggiò di fronte alla porta del locale, una mercedes. Scesero dalla macchina quattro tipi tutti imbellettati e una bionda, ubriachi fradici.Iniziarono a parlare con me, a farmi i loro discorsi. A uno di loro una volta avevo dato un passaggio e già mi conosceva di vista. Si muovevano scoordinatamente ridendo, urlando. Il padrone del locale chiuse la porta e restammo chiusi dentro, per non avere noie con gli sbirri. Urlavano, mi volevano parlare di questioni di paese e cazzate simili. La bionda incalzava su di me. C’era da chiedersi che cazzo volevano da un disperato. La testa mi scoppiava. Io non volevo stare in quel posto, era il diavolo che mi ci aveva portato. La bionda a un certo punto si mise ad urlare in arabo, i tipi attorno non so cosa dicevano, ma mandai a fanculo la bionda. Non mi meritavo una compagnia simile. Poi li mandai a fanculo tutti e mi avvicinai all’uscita. Volevo soltanto essere lasciato in pace. Uno cercò di riapprocciare con me ma io reagii male e gli dissi – Vaffanculo banda di idioti teste di cazzo! - . Uno mi prese e mi scaraventò a terra, qualcun altro iniziò a prendermi a calci. Sentivo solo i calci sui fianchi e sul braccio e provavo a reagire ma senza forze. Appena mi alzai mi fiondai contro uno di loro, un altro mi prese di forza e mi sbattè fuori dalla porta del locale. Mi ritrovai con il culo sul marciapiede. – Vaffanculo di nuovo pezzi di merda ! Diglielo ai tuoi amici che sono dei pezzi di merda! - . La macchina infangata di merda tossica era li che mi guardava, mi accesi una sigaretta e restai li a guardarla.Qual era il senso per cui mi trovavo lì. Non ero nemmeno sbronzo del tutto e stavo con il culo su un marciapiede. Era il bar sbagliato e puntualmente l’avevo beccato. Litigare con quattro coglioni di periferia non era nemmeno ipotizzabile. Raccolsi i miei pezzi e me ne andai via.

venerdì 7 maggio 2010

Il bar sull'autostrada

"Voglio il bar anonimo, quello che non và di moda, e bere. Il bar emarginato. Voglio vedere i camion parcheggiati fuori e lasciare la mia identità sul fondo del bicchiere, nell'anonimato. Voglio stare qui, in questo bar sull'autostrada, tra la gente che passa indifferente, e non resta, e lascia dietro di sè solo cicche di sigaretta. Conto gli spiccioli che ho in tasca e credo che sarebbe fin troppo bello e accomodante, confortevole e via di scampo, prendere una stanza nell'hotel al piano di sopra e restare a dormire lì, con le luci dei camion che si intravedono attraverso le tendine pallide colorate..."


Luigi Capone, tratto da "vita da bar".

domenica 2 maggio 2010

davanti al bar

Davanti al bar un ritrovo di gentaglia finta,
patetica, insopportabile,
piccolo borghese e snob :

ci sono donne
che stanno li solo per farsi guardare,
ci sono ubriachi che vomitano in silenzio,
c'è chi urla, chi inneggia a qualcosa,
chi sta emarginato
e poi ci sono quelli che bevono e si vantano di bere,
e quelli sono i peggiori.

venerdì 30 aprile 2010

Chiedi alla polvere

"A quelli che sono rimasti a casa potrete sempre mentire, tanto non amano la verità, non vogliono conoscerla, preferiscono credere che, prima o poi, anch'essi vi raggiungeranno in paradiso. Non pensate di imbrogliarli. Sanno benissimo com'è il sud della California. Anche loro leggono i giornali e guardano le riviste illustrate di cui sono tappezzate le edicole di tutt'America. Le fote delle case delle dive le hanno viste anche loro. Non hanno più niente da imparare."


da: "Chiedi alla polvere" - John Fante

lunedì 19 aprile 2010

Giornate inutili

Anche stasera per cena ho mangiato solo gli stuzzichini che mi hanno servito al bar accompagnati da vari campari – gin e birre. Questa è la mia classica cena. Non riesco a stare in cucina, a stare a tavola. Per me il tempo per mangiare non deve durare più di 5-10 minuti, altrimenti mi innervosisco.
Man mano che la gente sparisce da casa mia e si leva dai coglioni mi fa un piacere. In casa mia non voglio vedere nessuno, solo le bottiglie vuote a terra, e le cicche di sigaretta e i libri, le carte, e la polvere.
Avrò un carattere di merda, ma almeno io ce l’ho!
- Ma nemmeno una donna vuoi in casa? – Mi ha chiesto Billy
- Certo che no! – ho affermato parafrasando Alberto Sordi : - E che ti vuoi mettere un’estranea in casa? - .
Ma con questo non voglio dire che odio le donne, anzi ne sono visceralmente attratto. Anche se le donne che conosco non sono esattamente come in tv. Peccato.
Un ragazza che abitava nel palazzo a fianco al mio una volta mi disse, rispondendo alle mia avances :
- Luì non mi innamorerò mai di te, io mi innamoro di quelli coi soldi che lavorano! –
Era tutto ciò che doveva dire, e la ammiravo più di altre perché l’avevo detto. Avevo ammesso che tutte le donne per bene, “normali” e che si rispettino, guardano solo i soldi che hai in tasca, come sei vestito, e i centimetri del cazzo.
Era proprio vero che le puttane si trattano da signore e le signore si trattano da puttane.
Un’altra ragazza, del napoletano, una volta mi disse : - Luì perché parli in italiano? Sei frocio? Parla in dialetto che non ti capisco! - . Allora io parlai in dialetto nuscano e lei non capì lo stesso.
Il fatto è che capirsi con le donne non è un’impresa facile, ed essere realmente innamorato di una di loro neanche. Per amare una donna bisogna essere umani, e qui nessuno più è umano.
Oggi è una giornata di solitudine come tante, perché non ho niente da imparare e da vedere qua fuori dalla finestra. Se fosse possibile, oggi vorrei parlare solo ed esclusivamente con persone provenienti da altre nazioni.
Solo Gesù mi potrebbe salvare, se venisse accompagnato da una dozzina di birre.

Ma Gesù non c'è. Non so nemmeno dove mi trovo, sono in un non-luogo. Mentre cammino per queste strade diafane arriva solo un tipo in una mercedes, accompagnato da una bionda carica di gioielli e mi chiede :

-scusi, per Lancusi...-
-Qua è Lancusi...-
-Ah si? Ma il centro dov'è? -
-Qua è il centro...-. Mi ringrazia e se ne va, mentre io mi chiedo cos'è Lancusi e cos'è un centro.



Nella totale immobilità di tutte le situazioni, conosco solo l'asfalto e il cemento, asettico.
Insegne di negozi rotte, i vecchi con le peroni sul tavolino di plastica di qualche bar puzzolente, che guardano la via, ma non passa nessuno.Questo è il mio riflesso in questo fottuto angolo di mondo. I muri di cemento armato e i rifiuti edili mi ricordano che è tutto un cantiere. L'erba sfilacciata e malata sta per lasciare il campo. Interi campi di alluminio, di polistirolo, di mattoni, di tubi di plastica, di cartoni, di sabbia e cemento, di asfalto e sopra, le scie chimiche che creano un bieco e sinistro orizzonte. Hanno costruito e poi hanno abbandonato tutto, atteggiandosi a cittadini evoluti. E li vedi, gli uomini nuovi, prendere ognuno il proprio posto in fretta, e si rifiutano di uscire per non vedere nulla, rimanendo in casa appesi alla parabola per vedere la tv satellitare, le partite della domenica, del tutto insignificanti e scialbe, ossessivamente sempre uguali, come i mazzi di carte e i tavolini, e le sigarette intrecciate con cartine, filtri e tabacco scadente.Nessuno è presente tranne che nei loro gabinetti, nelle loro cucine, nei loro soggiorni, nelle loro stanze da letto come camere mortuarie.

martedì 6 aprile 2010

soli

Per sentirsi meno soli
scrivere suonare ubriacarsi morire,
pensando che c'è qualcuno come te
a cui stai gettando un'ancora
e stai lasciando una speranza,
come dire - qui qualcuno c'è!-.
Quando, chi si guarda i suoi interessi
è dietro l'angolo con te e non ti ascolterà mai,
perchè chi si espone non è un martire
ma un disgraziato,
o uno coi soldi.
Ed è del tutto inutile quindi scrivere per gli altri,
è tutto finto.
Qui, che scrive e che legge
non c'è nessuno.
C'è uno spazio morto.
Ci sono mille solitudini
in un corpo solo.

domenica 4 aprile 2010

Finis terrae

Due fari gialli nella notte corrono per il deserto della Basilicata indispettiti bevendo birra e fumando sigarette con la radio accesa, perché suo fratello sta con la sua donna, e gli amici, cattivi bastardi, pensano che non è buono; così và spedito, verso sud-est, verso il finis terrae , come un t- rex, sparato come un tuono.
Ci sono strade che ti seguono e non sei tu a seguire loro, e c’è una luna appuntita che li accompagna e li guarda, coricata su una stella, da quando sono partiti.
Corrono con loro, nella loro mente, tutti i mostri, gli animali, i ladri, gli assassini, gli avvocati e le puttane del loro mondo, in attesa di uno schianto, verso il finis terrae.
Intanto un’altra macchina in un’altra zona della terra, corre in direzione opposta, verso nord-ovest e non sa che sta andando a morire anch’essa. Stanno bevendo champagne e fumando pagliette, urlano, ridono, e sfrecciano con lo stereo a volume alto, come un bordello mobile. Non sentono l’ululato dei lupi, non vedono che la luna li aggira e li sta squadrando.
Corre la macchina a sud est, nella visuale di Roberto passano in rassegna le facce delle storie passate, e delle storie ancora in svolgimento. In quel momento la sua Jessica stava probabilmente nell’altra macchina, sfrecciando nella direzione opposta, in un’orgia di sesso e droga con Marco. In quello stesso momento, i suoi amici stavano scopando con lei. Nel medesimo lasso di tempo stava perdendo molti amici.

L’acceleratore andava giù sempre più pesante, verso i 180 km/h, incurante degli autovelox della Basentana. Si ricordava di quando Veronica lo portò nel campo di grano, della terra di sotto il Vulcano, di quando Ilaria lo lasciò in mutande a Roma, di quanto fossero lunghe, vuote e insopportabili le giornate nel suo piccolo paese.
Ormai era a 240 km/h , e si rese conto che non era il destino che lo seguiva, ma era lui che lo inseguiva, perciò non poteva scappare, non poteva rompere la sua gabbia, non poteva rompere le sbarre della sua prigione, e cercava qualcosa che lo uccidesse, per uscire. Pensava che fosse meglio morire che non poter essere sé stesso.
Stava quasi albeggiando, quando entrò a Finis terrae era ancora notte, ma qualche stella stava già morendo. Le stelle morivano, qualche stella addirittura precipitava bruciandosi ancora più in fretta, era strano che tutti a parte lui non capissero che stavano precipitando allo stesso modo della stessa e come lui su quella cazzo di strada.
Per tutta la vita, era stato sempre in un posto diverso, con una storia diversa, a sfuggire da qualcosa e ad inseguire qualcos’altro, ma ora le cose erano cambiate, niente più era con lui, dentro di lui, o fuori di lui, era in nessun posto, stava per valicare il finis terrae.
Nei posti dove era stato si era accollato le pene di tutti, come se vi avessero abitato in lui, e infelice aveva scrutato nell’aria i malanni, gli affanni, e la calvizie della vecchiaia.
Fu così che una notte in pieno inverno, confuso, triste, stanco, drogato, disperato, solo, con la puzza di pioggia che entrava dal balcone aperto della sua stanza a via delle Chaudet, si mise a scrivere il finale di una storia che ancora non conosceva e che non aveva capito, ma voleva che finisse e basta, forse era la sua storia. Ricordo che gli prese un senso di vertigine, come gli prendeva sempre quando era davanti a un burrone, anche se c’era la ringhiera.
Gli venivano spesso, presto capì che non era per la paura di finire giù ma per la voglia di buttarsi di sotto.
Scriveva al lume di una vecchia lampada “Fleming”, che emetteva una luce gialla polverosa, era solito avere sul tavolo sempre una bottiglia di Jack Daniel’s vicino allo stereo, e ascoltava un cd che avevo comprato in un mercatino dell’usato; quel giorno, quando entrò nel negozio e chiese alla ragazza dietro il bacno se c’era questo cd, lei lo trovò subito e mentre glielo dava era sopresa, perché fuori pioveva a dirotto e il mondo era una merda, e quel tipo con la faccia da disadattato stava comprando proprio quel cd esattamente in quel momento . (e una canzone d’un tratto diceva : “Come on Alex, you can do it”)
Anche il suo protagonista beveva bottiglie di Jack Daniel’s che teneva sempre sul tavolo, ma andava in giro con una Beretta calibro nove in tasca.
Lui era pronto per sparare i suoi colpi ora, adesso poteva sparare tutte le sue cartucce, si era liberato dal fardello di essere una persona per bene e rispettabile, era riuscito a lasciarsi dietro lacrime e sangue, e gente che parlava di lui tutto il giorno, in quel buco di mondo.
(Un bel giorno, quando aveva sedici anni, una ragazza gli disse di volare via con lei, gli disse che era qualcosa d’importante per lei. Erano passati vent’anni, e lui continuava a pensare a lei, ogni tanto la chiamava con un numero anonimo, lei rispondeva con la solita magnifica voce che aveva, e a volte lui pensava che lei avesse capito chi era, chissà forse qualche volta è stato così; non poteva più chiamarla da tanti anni, da quando lei si era convinta che fosse un fuori di testa, un ragazzo con seri problemi che non poteva aiutare, e del quale, anzi, voleva liberarsi. Ma lui continuava sapere tante cose di lei, sapeva che ora stava con un ragazzo di Roma e viveva lì, e lo sapeva perché questo ragazzo lo chiamò e lo minacciò varie volte. )
Roberto era passato definitivamente dalla parte di sotto e non sarebbe mai più tornato sopra,nel mondo dei buongiorno e buonasera.
La gente da tempo lo guardava come un tipo malato da dover evitare, ma la gente non si chiedeva come mai lui non voleva frequentare la gente, forse non si chiedevano se erano loro tutti a non essere alla sua altezza.
Quando passò Finis Terrae fu libero, felice, esattamente per un minuto e mezzo: Finis Terrae, la sua anticamera dell’inferno. Poi la macchina precipitò giù pesante come se non vedesse l’ora di cadere, a rallentatore, la terra era finita, si sentì un grosso tonfo nell’acqua; sprofondò nell’acqua come una nave, come nella sorte di migliaia di marinai e di pirati del mediterraneo nei secoli, in cerca di fortuna; nella fredda acqua salata, finì avvolto dal mare, i suoi polmoni si riempirono di acqua marina e scoppiarono. La morte stavolta, non era mai stata più reale, e si era liberato anche dal quel senso di vertigine che sempre lo inseguiva.

martedì 16 marzo 2010

30 calci in culo

Non sopporto più, non tollero più le facce delle studentesse e degli studentessi che affollano l’università. Questa grande scuola materna che stampa pezzi di carta per rimanere disoccupati al nord.
Le fottutissime studentesse che emigrano nelle città a fare le troie, e girano con l’aria da saputelle.
Che arrivano in aula alle 7 e mezza per seguire la lezione, si fanno occupare i posti da qualche sfigato, e già parlano, parlano, parlano, di cazzate, di scarpe, vestiti, programmi televisivi.
Tutte col cellulare nuovo che parlano e parlano. Ma che cazzo avranno da dire alle 8 di mattina?
Parlano, parlano, parlano e io non tolllero. Parlano, parlano e gridano al telefonino : - mamma, mamma ho preso 30 -!
30 calci in bocca vi darei, a tutti quanti.

Il mio è tempo perso, solo tempo perso!

Ma partiamo dall’inizio.

Il mio status era quello di studente universitario, oppure di nomade, o di extracomunitario. In realtà il mio vero status era quello di alcolizzato-nullafacente-mantenuto. Una merdina in un mare di caccole più grandi.
Ma infondo ne ero contento, volevo mantenere la mia reputazione di bevitore scansafatiche derelitto. Era sempre meglio di fare un lavoro di merda e andare in chiesa come gli altri stronzi. Era meglio fare il nomade, con la differenza che io avevo bisogno semplicemente di una stanzetta lurida e fetida dove cacare e vomitare.


Una mattina come tante, il corso universitario che andavo a seguire era condotto da un professore molto anziano e moribondo che puzzava di muffa e di morte, e parlava faticosamente e lentamente di Pascoli, insistendo morbosamente sul fanciullino. Forse anche lui si chiedeva il senso di tutto ciò.
Voleva morire, ci spiegava che il consiglio didattico l’aveva trattenuto con la forza a mantenere la cattedra e che a lui ormai non fregava più un cazzo, né di noi, né della sua vita ormai agli sgoccioli, né tantomeno della fottuta letteratura.
Restavo lì come una merdina a seguire il corso. Ero nell’esercito di coloro che cercavano il dannato pezzo di carta per andare a guadagnare uno stipendio. Mi candidavo ad entrare nell’esercito di coloro che cercano un lavoro, coloro che ormai sono considerati una vera e propria minaccia per la società. Sapevo bene che quando si và chiedere un posto di lavoro, vieni guardato come se volessi rapinare una banca, come se volessi ammazzare qualcuno e devi condurre la lotta con tutte le tue forze per entrare in quel mondo meschino, fatto di stronzi.
A volte nell’università mi sento accerchiato. Da un lato dell’aula i cattolici, talvolta ciellini, perbenisti e rigorosi nella morale, che sono scandalizzati dal fatto che vesti disordinato e scopi una sera si e una sera no. Li vedi nelle prime file composti ed educati, e attaccano manifesti per aderire alle loro fottute associazioni. Soffrono dei sensi di colpa inculcatigli dai genitori per il fatto di non essere dei veri studenti modello. Anche il 28 a volte, può essere un’umiliazione e una grave frustrazione. Vicino ai loro banchi si confondono i fedelissimi dell’istituzione, i cittadini modello, che sognano di diventare marescialli o carabinieri. Niente alcool e niente fumo, per carità, e mai nella loro vita che abbiano fatto un divieto d’accesso. Tolleranza zero verso gli extracomunitari, i froci, gli zingari, gli stranieri e quelli come me, ovviamente.
Dall’altro lato i filosofi comunisti (finti), che vogliono farti anch’essi la predica. Parlano di piccola e media borghesia, lotta di classe, proletariato. Termini che non significano un cazzo. Il mondo di distingue in due fasce: chi c’ha i soldi e chi no. Vanno in giro per l’università con la loro flemma e il loro stordimento cronico fumandosi le canne, e puzzano di sudore rivoluzionario. Ovviamente non leggono libri, non studiano e non sanno un cazzo. Molto spesso fanno parte della fascia di popolazione del mondo che i soldi ce li ha, o sono dei poveri cristi normalissimi e repressi.
Al centro della scena invece, ci sono le ragazze e i ragazzi immagine. Disperati inseguitori dei modelli proposti dalla tv. Appoggiati al muretto col cellulare ultimo modello per farsi notare e occhiali da sole all’ultimo grido, mutanda firmata scoperta e sopracciglia tirate. Le ragazze perse a farsi fotografie che poi metteranno su myspace o su facebook, lanciando bacetti, occhiolini e masticando gomme, vestite da troiette da bijotteria.
Fanculo le chiese, i partiti e le discoteche. Infondo sono la stessa cosa. Per quanto mi riguarda non andrò a pregare, non andrò a votare e non andrò a ballare. A volte davvero resta da chiedersi cosa cazzo viviamo a fare in questi anni.
Il minimo comune denominatore della mia generazione è la droga e il sert. La droga è l’attuazione del comunismo. E’ la vera rivoluzione democratica. Tutti si drogano, dal figlio del ricco, al figlio del pezzente, al figlio di puttana.

lunedì 15 marzo 2010

Al bar bettola

Non vivo da almeno quattro anni. Non parlo, non mi muovo, avrò detto in questi quattro anni al massimo cento parole. Andrei in giro a distribuire volantini lasciati in bianco. Sono depresso, sguardo nel vuoto, inferno nel cervello. Pensi che sta per venirti un infarto e infondo ci speri, per farla finita. Non hai i coglioni per farti fuori, se ce li avessi, non saresti depresso. La scorsa notte sono uscito da un incubo in cui una puttana scopava e poi si metteva a piangere. Più in generale, sono uscito da un paese di nomadi, e come loro, vago senza meta, sospeso in un lento e preoccupante scorrere del tempo.
Ho un bisogno urgente d’alcool. Sono molto più che depresso. Un gin , un whisky, un rum , una bottiglia di assenzio…il rimedio nel mio cervello grida : ”una bottiglia di vodka russa al supermercato, presto!”. “In tutto ciò è possibile che non hai le palle di piantarti direttamente una pallottola in testa?” dice un’altra voce.
Un altro giro ancora, l’alcool non sta facendo effetto. Vorrei trovarmi in un bar di una città sconosciuta con un temporale fuori alla porta. Mi accontento di questo ritrovo di pensionati, che tra bestemmie, imprecazioni e grosse e avide risate piantano le carte del tresette o del poker sul tavolo. I campari-gin e tutti i tipi di alcolici qui costano pochissimo. Con venti euro dovrei farcela a vomitare il cervello. Il discorso è chiuso con gli interlocutori: l’alcool è un ottimo e valido rimedio contro le crisi suicide. Altro che avere i coglioni…
In questa società contano solo due cose : la prima è essere belli e la seconda è essere ricchi. Il resto non conta un cazzo. A che serve lottare, affrontare, sopravvivere quando vuoi morire e andare all’inferno, quando è tutto inutile.
Ecco…ora l’alcool sta funzionando, i miei sensi si stanno chiudendo, il mio cervello si sta svuotando. Inizierei a farmi una mano di poker. Il gioco d’azzardo serve a redimere gli uomini, a metterli di fronte alla verità. Mi sento ricco , perché oggi in tasca ho solo 50 euro.
In questo locale si fuma e nessuno se ne fotte. E allora:- un altro, un altro campari gin! -. Coi soldi ce la faccio.
Ora invece passo al rum, una bella vomitata mi farebbe bene. Morire d’infarto non sarebbe male, sarebbe una bella morte. Ho gli occhi gonfi. Stasera se un mio amico si trasformerà in Babbo Natale. Avevo gli occhi troppo aperti e lentamente li sto chiudendo. Molto meglio così, perché serve un numero superiore di palle al mio numero di due. Probabilmente la luce la trovi solo nel buio, e così si potrebbe essere felici ed esultare per il semplice fatto di essere vivi e morire presto. Per la consapevolezza di cambiare questa situazione; o anche per il gusto di alcolizzarmi.
Se non mi pubblicano questo libro sarò solo uno stronzo e sarà meglio impiccarmi.
Sto con gli amici anche se non li conosco.
Mi sento a casa con l’alcool, una bottiglia di vicno, il gioco d’azzardo, la puzza di vecchio e la tv accesa come una lucina incomprensibile; qualche pizza da mangiare a tranci, lo stordimento, l’abbrutimento, così tanto genuino, fino ad annullarsi. Se Dio è un’illusione, forse rifugiarsi nell’illusione è la cosa migliore al mondo che esiste per noi comuni mortali. Ma di Dio, chi se ne frega. Preferisco l’illusione, sono troppo codardo per vivere. Forse in questo momento sono già ubriaco, avendo perso il conto dei campari gin e degli alcolici da pagare, e ora vado a vomitare in qualche cesso, tanto la morte sarà una liberazione.
Dormo poco…ma si… Non mi lavo neanche…va bene… figuriamoci se riuscissi a lavorare…
Ora è scomparsa anche la puzza che emano e finchè dura lo stordimento non ho bisogno di cercarmi un lavoro e una casa.
Ora io sono una speranza affogata in un bicchiere cantante, conosco la parola sconforto ed ho il cuore intasato di fuliggine. Il volto rattrappito. E’ tempo di febbricitanti corsie d’ospedale. C’è la voglia di non alzarsi dal letto, ci sono gli spasmi allo stomaco. Mi sveglio ogni mattina sputando sangue. La favola dell’uomo che volava sulla scopa sopra ai tetti è finita in malo modo: la scopa gli è entrata nel culo.
Non c’è nemmeno una stella nel cielo. C’è una casa dei morti più avanti, e un cancello con un crocefisso a lampadine a risparmio energetico. Dormiro lì, lungo il selciato. Oltre le inferriate le luci dei lumini, sole, coi fuochi fatui, scintille di decomposizione dei nostri corpi. I vermi già mi camminano lungo la schiena.
Il mondo si perde una gran bella cosa, una delle poche persone in grado di amare, il qui presente, che non ama nessuno.
Oggi non so come sto e non ho tempo,
mi viene solo dal cuore
di dire
VAFFANCULO

sabato 13 marzo 2010

Ed Vedder - "Can't Keep"

http://www.youtube.com/watch?v=Po6U4EeQ820

Iwanna shakeI wanna wind outI wanna leaveThis mind and shoutI've livedAll this lifeLike an oceanIn disguiseI don't live forEverYou can't keepMe hereI wanna raceWith the sundownI want a last breathForgiveEvery beingThe bad feelingsIt's just meI won't waitFor answersYou can't keepMe hereI wanna riseAnd say goodnightWanna takeA look on the other sideI've livedAll those livesIt's been wonderFull at nightI will live forEverYou can't keepMe here

Torniamo all'incipit, al purgatorio.

"Vita da bar" è un libro che ho scritto negli ultimi due anni. Un collage di storie diverse accomunate tutte dallo stesso bancone, in posti diversi. In questo libro si farà un percorso stranamente inverso, si partirà dal purgatorio non per ascendere poi al paradiso, ma per scendere più giù, gradualmente, agli inferi, passando per il bivio. Un percorso senza possibilità di assoluzione. E ripercorrendo tutti i gironi e le varie creature che li popolano, arriveremo all'ultimo anello, quello più profondo, dove ha sede, al posto di un improbabile diavolo, il bar.







Purgatorio



“Vi scrivo da questo cesso, come al solito, solita noia e troppe chiacchiere, troppe. Un paesino. Questo qui è un paesino che somiglia a un flipper, rimbalziamo da una parte all’altra come palline che non hanno un senso. L’unico modo per iniziare a sperare è andarsene. Amsterdam, Londra, U.S.A., scegliete voi la vostra meta, o rimanete nel cesso!”




Non leggo la Bibbia, non credo nei santi,non vado a pregare in chiesa, ma ogni tardo pomeriggio o sera vado al bar, e siedo dietro un bancone, dietro un bicchiere, l’unica cosa che mi fa sentire meglio.Stasera fa caldo, attorno c’è gente che si vuole divertire in mezzo a musichette da festa; dal reggae al latino americano passando per le ultime hit della dance:MERDA. Mi sta scoppiano la testa, mi sto cagando sotto, ho i capogiri. Cancellerei tutte le cose presenti in questo posto, rimarrei da solo, con una scorta di birra fresca, sopra al mio letto, con le tapparelle abbassate e un po’ di musica mia: Nick Drake; o mi passerei anche volentieri una settimana in ospedale a vegetare sul lettino del reparto psichiatrico. Gioco tra fuori e dentro il bar, come tra inferno e purgatorio. Dentro al bar, tu, il bancone e un cameriere, tra te e lui un bicchiere di liquido rosso, nient’altro. Fuori camminano come gli avvoltoi, ti entrano nel cervello, cercano di capire i tuoi pensieri dal tuo sguardo. La luce è fioca, bassa e pesante al neon, contribuisce allo stordimento, a una calma troppo calma che mette ansia. Mi guardano gli ottantenni, mi guardano le famigliole, le coppiette invece pensano ai cazzi loro. Non lo so che faccia ho, non so come appaio, il mio senso di realtà è alterato. Come se non fosse vero, un ragazzo d’un tratto passando mi chiede – ehi, a cosa stai pensando? - . Evidentemente sono un pesce fuor d’acqua - qui non si pensa- o forse un’anima buona fuori da un bar. Ancora una volta qualcuno mi sta parlando ma non riesco a sentire, così come guardo ma non riesco a vedere.Non appena in questo fottuto posto iniziano i giochi, e i “dandy” si iniziano a divertire, per me è finita, e mi conviene fare due cose :-“Bere e fumare di nascosto”, appeso a un bancone, o appeso a un lampione.Stasera nell’ambiente universitario c’erano quattro feste. Una festa di laurea, un concerto, un happy hour, una inaugurazione. Io ho studiato per ore e poi, uscendo dalla mia stanzetta ho scelto di andarmene al bar dove c’era meno gente possibile, quello dove i tipi prepotenti e ottimisti non ci sono insomma.Eppure qualcuno di troppo c’è sempre…avrei dovuto spostarmi di più o forse, il posto adatto a me, semplicemente, non c’è. Forse è che io cerco i bar, i fottuti bar del cazzo, invece di cercare un luogo anonimo, pacifico, clandestino, la mia stanzetta in un fottuto motel di una superstrada : l’Ofantina, ad esempio. Ci sono stato tante e tante sere, con ragazze più o meno decenti, e credo che ci tornerò, per forza d’inerzia. Ci tornerò perché non c’è un altro posto dove sento di non essere in alcun dove, in nessuna città, in nessun luogo, forse a metà, tra l’inferno e il purgatorio, dove sei anonimo in mezzo allo scorrere del mondo. O anche per stare da solo con i miei spettri, e sviscerare il passato, in modo da tirarne fuori una logica plausibile. Il passato è fatto apposta per torturarci, e gli animali, che non ricordano, non ne soffrono. Non puoi imparare dal passato, perché il destino non è mai giusto, e gli errori ritornano uguali, puntualmente. Il passato ti riporta al bar, inevitabilmente, su un crocicchio, su un bivio, sempre.Ho tutte queste cose da capire, anche se alla fine non c’è niente capire. Tornando al presente, esistono un sacco di animali, di tutte le razze, sempre più squallidi e viscidi, ed è per questo che le anime buone, in genere, bevono. Io bevo. Ma in disparte. Non sto con quei tipi che rullano canne, si fanno i rasta, ascoltano il reggae, ti dicono “fratello, peace and love”, e stanno sempre con quei cazzo di bonghetti. Che Guevara drogati e Bob Marley politicizzati. Io sono stanco di queste cose, di queste finte ribellioni asservite al potere, di queste stronzate, perché ho capito che non c’è nessun figlio di puttana o di santa nel mondo che non sia un pezzo di merda. Poi c’è chi si esalta per un’idea politica, e inneggia il nome di alcuni ladri. Chi pensa che un politico, un ricco, un imprenditore, un uomo che parla dall’alto della tv o di un fottuto palcoscenico di menzogne, gli potrà donare la salvezza. Girano come dei cazzo di falchi per affibiarti la loro etichetta di partito, cercando di portarti nel loro mondo di merda. In periodo di elezioni pensano tutti che sei un coglione e che riesci a credere alle loro stronzate. La democrazia è votarli per poi fargli fare quello che vogliono, farli ingozzare, e sentirci dire che il potere è nelle nostre mani. E’ una dittatura legittimata dal voto. A me, basta guardare le facce da un angolino di cesso. Le facce, sono la cosa più interessante che si può osservare, insieme al modo di camminare delle persone. In gran parte lasciano trasparire tutta la loro cattiveria. Al bancone stasera c’è una ragazza vestita di nero, con un drink che non sta bevendo e guarda il pavimento. Il suo viso è segnato, sembra scolpito profondamente, ha un trucco messo male di colori accesi, che la fa sembrare una puttana da quattro soldi. E’ piuttosto giovane ma sembrano uscirle già delle rughe dal volto, a causa dei cento ragazzi che l’hanno usata, scopata e poi lasciata sola. E’ intrisa di puzza di whiskey, tabacco e profumo scadente. Il suo ragazzo sarà un animale, stasera l’avrà picchiata di nuovo, e lei ha pianto, rovinandosi quel trucco esagerato. Poi è rimasta sola. Ha preso coraggio. E’ uscita e si è riversata nel primo bar che le capitava, purchè fosse semivuoto, e si è messa a bere. Ora è al quinto. Sta ripensando la sua vita. Un po’ di alcool può cambiare la tua visione, il tuo punto di vista, ti fa accettare le tue rovine e infine, ti dà un po’ di speranza. Lei, di speranza non ne ha, deve andarsela a cercare in un bicchiere.D’un tratto tossisco, lei si gira verso di me per un attimo, potrei portarmela a letto quando voglio, in fin dei conti non è male, non è molto alta ma ha belle gambe ed è snella. Io forse, sono esattamente quello di cui ha bisogno ora, e non è il caso, per cui giro lo sguardo e prendo una grande sorsata di birra. Non voglio grane. Il ragazzo potrebbe tornare indietro con una pistola per quanto ne so, e non sarebbe una cosa strana. Però mi piace. Ha un po’ la mia sfiga,forse. Il suo cuore, il mio cuore è grigio cenere.Se sei innamorato ti fottono. Se tu la ami più di quanto non ti ami lei, sarai scaricato e finirai a disperarti in un bar di merda o nella tua stanzetta rischiando di impazzire. L’amore ti fotte. Io non cerco relazioni stabili.Quando ti innamori di qualcuno devi sempre badare che questo qualcuno sia innamorato di te più di quanto lo sia tu.Quando poi ti scaricano, lo fanno sperando di farti soffrire il più possibile, usando come arma l’indifferenza. Fregandosene di tutto quello che sei e che rappresenti. E se tu stessi in mutande sul marciapiede a fare l’elemosina non si fermerebbero a guardarti. Possono lasciarti anche per sms, cioè con un fottuto messaggino sul cellulare, scrivendoti semplicemente –VAFFANCULO - , oppure più diplomaticamente – Scusa , sto frequentando un altro, non farti sentire più, ciao- . Quest’ultimo messaggio vuol dire che l’hanno quasi messa incinta. Troia.Si dicono tante cose sull’amore, ovviamente nessuna corrisponde alla verità, nemmeno questa. Quello che realmente mi tiene compagnia è un piccolo vinile e una dozzina di sigarette. Le facce parlano, non so la mia cosa dice – sicuramente nulla di buono - , ma non voglio guardarmi allo specchio. Meglio di no. Guardo le altre persone che bevono quando sto al bancone, o che passano nella loro fretta quando sto sul marciapiede. Hanno tutte lo sguardo indifferente e cattivo, sembrano uscite da un inferno, ognuna il suo, per conto suo.Io intanto, non sono di nessun posto, non appartengo più a niente . Il mio posto è la strada, il mio posto è nel purgatorio, nel bar, aspettando il giorno che non verrà mai.La cameriera mi guarda e ride, non so perché, e non ci posso fare niente, posso solo scrivere.